Lavoro. L’ho deciso stamane appena sveglia che oggi la parola chiave per la pagina del diario dei 25 giorni a casa sarebbe stata lavoro. Non esco di casa, nel senso che nemmeno mi sposto per fare la spesa o andare da nonna, da domenica sera. In condizioni normali, con lavoro pressante e cose da progettare, tutto questo sarebbe anche stato normale, non mi avrebbe creato disagio.

Ma così, no. Ora proprio no: il fastudio è palpabile. Manca l’aria. Soffocamento, voglia di vedere gente della tua età. Voglia che questo esperimento finisca. È durissima. Lo è perché la giornata di oggi ha come esordio un altro lavoro perso. Leggo la mail, mi dico “che altro poteva fare?” pensando al cliente che mi lascia a casa, e lì per lì nemmeno mi preoccupo. Vorrei sognare leggerezza. Però lo sento che in quella sacca di angoscia che va alimentandosi da giorni è caduto un altro pezzettone di vita.

Sta lì. Galleggia anche lui. Chissà cosa che ne sarà, chissà cosa mi inventerò. Perché è chiaro che qualcosa dovrò fare, il lavoro non arriverà da sé: non era facile prima, adesso sarà difficilissimo. Ci provo a cercare della leggerezza eh, ci provo con cose che potrei fare, che vanno a infittire liste infinite. Mail di idee che accumulo pensando di trasferirle su un quaderno dove scrivere della mia vita immaginaria da qui a non si sa quando. Non lo sa nessuno: il virus continua letale a sparpagliare morte e panico tra noi umani. Le frontiere chiudono, oggi, hanno detto al tg, l’Europa è zona rossa.

Cerco di andare indietro a ripescare quando è iniziato tutto questo. L’esatto momento in cui abbiamo capito, abbiamo iniziato ad adattare la nostra forma mentale al pericolo. Non ci riesco: il passaggio è stato così graduale da aver assorbito le tappe in un unico tunnel che ora, per quanto mi riguarda, sfiora il mese. Un mese a casa. Che sciallo, che fortuna, potevi fare tutto quello che volevi.

No, tutto quello che volevo no. Non posso uscire, non può nessuno. Non posso vedere gli amici e bere una birra per lenire un attimo questo tarlo che rode dentro. Non posso dare appuntamenti, prendere il treno, andare al corso di scrittura. Non posso leggere: e chi ce l’ha la serenità? Però lavoro, continuo a farlo: assemblo notizie, monitoro, controllo, faccio interviste e le sbobino, e continuo a odiare questa cosa di dover sbobinare come del resto è sempre stato.

Oggi ho intervistato una ragazza della mia età. È bravissima, ha talento, è capace e determinata, ma è del 1986: la generazione precaria. Cadiamo, ci rialziamo, ci inventiamo cose, non molliamo. Questo a parole. Parole al telefono, parole scritte, parole sui libri. Anche oggi ho parlato tanto di libri: Calvino, Tomasi di Lampedusa, e chissà quante altre idee di quelle che mi girano in testa sono frutto di letture stratificate nel tempo.

Letture che potrebbero diventare lavoro, che parzialmente lo sono state, che a conti fatti lo sono, lo sono tutti i giorni. Lavoro non pagato, lavoro per piacere, lavoro che non esiste se è così. E uno, poi, fatto il conteggio delle ore dedicate alla creazione di contenuti che non sono pagati, si stupisce un po’ di come sia possibile. Si domanda perché, dove ha sbagliato, quali bivi ha imbroccato dalla parte sbagliata.

Tutto questo tempo in casa a pensare contemplando i miei piani lavorativi che crollano a cascata e trascinano nel fiume i miei bilanci economici per l’anno 2020 non mi fa bene. È veleno. Le competenze, le scelte, i no, le fregature, le cattiverie, l’ingenuità. Tutto quanto, preso, infilato nel fagotto e portato al salvo a casa, da quasi un mese.

Esco in terrazza a parlare di meccanismi di creazione del senso e di punti di vista. Saranno poi decisivi proprio loro, i punti di vista? Me lo domando spesso: se guardassi le cose come fa chi vive meglio, forse vivrei meglio anche io. Se gestissi le cose da fare, il tempo, le priorità, se gestissi l’emotività in modo differente da quello che mi ha caratterizzata finora, forse le cose cambierebbero.

Lo so, lo so, non è la scoperta della quarantena questa. Certo è che le circostanze mi hanno inchiodata a questa robaccia qui. E in loop, di giorno in giorno, non ne esco, non trovo rimedi. Non posso dare aria ai pensieri perché non sto vedendo nessuno, non mi confronto faccia a faccia con nessuno. Carico video. Da due giorni, tutto il giorno. Il pc è lì che lavora, io aspetto. Percentuali, numeri, e poi precipita tutto. Esattamente come la vita, va tutto più o meno bene, più o meno lento, e poi sbam, si ferma tutto. Fa uno schianto assordante. Anche se lo sapevi, anche se lo sai che c’è un sacco di gente come te. Vabbè poco male, dai, riprendi, riprova, no? Ma è passato il momento, è passata l’ora buona, è passata la vogia che qualcuno ti tendesse una mano. È passato tutto, anche il tempo di fare. Metti insieme i cocci, li porti avanti già agonizzanti e non ti chiedi nemmeno più che senso abbia, se interessi a qualcuno.

Non esco di casa da due giorni, vado solo in terrazza, mi siedo vicino al ficus, parlo a braccio alla fotocamera. Due appunti sul quaderno, li ho presi dalla tesi di dottorato, da quel paio di idee che ho tirato su nel tempo. Vorrei fossero loro a salvarmi, ma per sta sera non è ancora successo.

A furia di sentirla in tv: Credo negli esseri umani, Marco Mengoni
Prendi la mano e rialzati
Tu puoi fidarti di me
Io sono uno qualunque
Uno dei tanti, uguale a te
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Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!