«Non lo posso sopportare… Questo silenzio innaturale»: Diodato passa in radio e mi fa ripensare a una chiacchierata avvenuta in chat ieri, cioè già oggi, a notte fonda. Una di quelle cose partite per un segnalino innocente mandato nel vuoto, diventata poi una sorta si seduta psicologica. Con gli amici belli funziona così, l’importante è avere dei fazzoletti, e se il giorno dopo gli occhi patiranno un po’, l’umore sarà invece rinvigorito.
Quindi oggi sorrisi, carica, diamoci da fare. Anche se mi ronzano in testa consigli, ammonimenti e quant’altro appeso con perizia su un muro che potrebbe anche iniziare a venir giù. Fantasmi, zavorre: c’erano prima, eccome, ma col Coronavirus la scusa per farli saltare fuori è frizzantissima. Si è fermato tutto il resto – almeno, apparentemente, quasi per tutti, forse – e gli irrisolti eccoli lì, tutti in riga a guardarti con la loro faccia accusatoria.
Per questo c’è un silenzio che difficilmente sopporterei, se non avessi impostato un pensiero di salvezza, un aquilone per portarmi via dal pantano. Stamane, decimo giorno di quarantena, ho acceso la radio per tenermi compagnia. La radio è un’amica di vecchia data, con la radio mi sento bene, mi sento a casa. Mi apre una finestra sul mondo e posso riprendere a respirare aria, voci e canzoni a sentirmi consolata.
Consolare contiene la solitudine, e ci mette a fianco un amico. Una chat salvagente per evitare di scivolare nell’oscurità. Sarà un caso ma oggi c’è il sole e tutto è più leggero. Che non vuol dire facile, non vuol dire che non ci saranno altre cadute. Però significa puntare una stella, puntare il futuro, sapere che in qualche modo si uscirà dalle sabbie mobili che si sono create per colpa di nessuno, ma perché gli andamenti della vita sono vari. È successo, succede, succederà ancora, e c’è sfortuna, c’è ingiustizia, c’è tutto dentro, anche la possibilità di fare altro.
La giornata è a dire il vero splendida, stringe il cuore stare in casa, è lancinante la conta dei morti, che oggi sono tantissimi, numeri che fanno impressione, dicono che l’Italia oggi abbia addirittura superato il picco massimo della Cina. Mi chiedo perché. Mi chiedo come sia stato possibile. Eppure oggi è proprio primavera, si percepisce nell’aria, nella voglia di riprendere e qualcosa accadrà. Cerco foto per lavoro su vecchie cartelle, mi passano in rassegna almeno due anni di facce, feste, vacanze e mi sembra sia passata un’eternità. Quando ha iniziato a scollarsi il tempo dalla mia percezione? C’è una frattura netta, la riconosco, l’ho vista. E penso all’oggi, a questa strana situazione, ai passi che non faccio, a quelli in mezzo all’erba che era primavera, e ancora non sapevo cosa mi aspettava.
Che avessi più fiducia nel futuro era indubbio: non pensavo, io non credevo, io… Ma chi poteva prevedere una cosa del genere? Lo dico da qui, un angolino tutto sommato sereno. Oggi in terrazza ho registrato la terza puntata di In terrazza con Calvino: ragazzine giocano rincorrendosi in cortile, un papà con una bambina, lavori di operai. Apparentemente tutto normale, un po’ meno rumoroso. Apparentemente. La terza giornata senza nemmeno muovermi per la spesa o la nonna. La nonna chiama, la sentiamo tre o quattro volte al telefono: dopo che ho letto che a Torino hanno istituito un servizio di supporto per gli anziani soli, dove basta telefonare per ricevere un po’ di compagnia, il telefono ha assunto un’importanza vitale.
Ecco, il telefono. Le amicizie al telefono. Le chiamate che non ricevo, quelle che non faccio. I messaggi che vanno a fiotti, quelli che non arrivano. Che cosa ne è dell’amicizia, ai tempi del Coronavirus? I più fortunati racconteranno di aperitivi su skype, flash mob in terrazza, lunghe chiacchierate per confrontarsi su una situazione inedita e cercare di districarne insieme le linee. «Non ce la possiamo fare da soli, sia come individui, sia come paese» ho sentito dire oggi a Elsa Fornero in tv. La frase mi ha colpita: ah, ma allora non sono solo io che sento questo bisogno impellente di condividere le cose con qualcuno che possa capirmi. Ah, ma allora è normale.
Solo che. Solo che. Solo che. Amici lontani ne ho tanti, sono la maggior parte. Sono abituata, ad avere amici lontani. Rapporti uno diverso dall’altro, perle di un’unica variopinta collana che è il mio tesoro più grande e mi permette di non sentirmi mai sola, proprio perché sola, in fondo, lo sono sempre: gli amici sono altrove. E se da 26 giorni non vedo il mio migliore amico, un’altra amica importante non la vedo da 32, quando l’incontro è stato fugace, in realtà non la vedo da dicembre, e un altro ancora, figurarsi, dalla scorsa estate.
Amici lontani, amici da coltivare, amici che si perdono. La linea telefonica inizia a essere disturbata, cade, si recupera, si sente male, si inizia a non capire le parole, inutile ascoltare. Riattaccare. Che siano interurbane o chiamate internazionali, il silenzio si insinua come unico rumore possibile. Segnale di presenza: c’è silenzio. Bastevole per accorgersi di dover cambiare qualcosa. Cambiare telefono, cambiare numero, cambiare idea. Mi viene in mente la pubblicità con Massimo Lopez, la legione straniera e la fucilazione. Ultimo desiderio? Una telefonata. E la chiamata durava una vita intera.
C’è una clessidra in cui invece che scorrere sabbia in giù scorrono note, in su: dentro un musicista, è ispirato a Fabrizio Bosso, lo ha disegnato Olivia Trummer, che ha scritto «The music never stops».
In radio la mattina: Fragile, Sting
On and on the rain will fall
Like tears from a star
Like tears from a star
On and on the rain will say
How fragile we are
How fragile we are