«Ragazzi, su col morale». Ho un occhio aperto nel letto e la propaggine nel mio braccio – il cellulare – mi rimanda un buongiorno benaugurante di Simone Perotti. Ci avete fatto caso? Sono solo io? Quante ore in più, rispetto alle già tante di prima, passiamo attaccati a telefoni, tablet, pc? Terribile, una parte del mio cervello lo sa, anche nella mattinata del dodicesimo giorno di quarantena. «Non molliamo adesso. Sento che qualcosa si sta per muovere. Ora sembra tutto buio, e cento e un dato sembrano confermarlo. Ma l’ora più fredda della notte è tra le 4.30 e le 6.00, lo sa bene chi fa i turni al timone: l’ora che precede l’alba».

Un po’ mi consolo, un po’ è una carezza. Oggi fa un mese esatto da quando sono a casa. Era giovedì 20 febbraio, a Torino ho lasciato un paio di cose ad asciugare sullo stendino, tre mele fuori dal frigo, una borsa, svariati libri, e forse qualche altro genere alimentare sulle cui condizioni, quando e se mai tornerò, potremmo interrogare dei biologi.

La conta dei morti non diminuisce. Non se lo aspettava nessuno. E invece. Però le coccole sono belle, a letto si sta bene: fortunata io che posso dirlo. Sono fortunata, è vero, lo so. Un pensiero costante, tuttavia intermittente: solita nuvoletta lavorativa del venerdì mattina. Saltano i piani – i miei, piani: c’è ancora qualcuno che programma cose in questi giorni? Ebbene, io sì -, il caffè si raffredda, i dubbi, le tensioni, i soliti loop.

Il tempo che si perde: pazzesco. Il tempo di pensarci e sono le 11, fuori è nuvolo, vento freddo, accendo la radio. Parte l’inno: le radio unite per l’Italia. Apro la finestra della cucina, esco in terrazza: il silenzio. C’era da aspettarselo. Allora alzo il volume, l’inno sfuma su Azzurro, e non posso non pensare a Palermo, 2017, la mia amica e io che ci perdiamo senza volerlo tra i vicoli della città sbucando nella Vucciria. Impazza la festa, è una sera d’estate e Azzurro suona a volume altissimo tra ammassi di persone che ballano, le mani al cielo, avvinghiate tra coppie che si baciano, chi vende accendini, chi cucina il sugo per strada. Impossibile non lasciarsi andare nella bolla di estate italiana: si balla, si ride, si cerca di transitare. Ogni volta che sento Azzurro ormai è quella sensazione lì, quella di sentirmi a casa pur stando dall’altra parte di Italia. Ed è una sensazione bellissima.

Passa Battisti, passa Volare, che in quel blu dipinto di blu di tempi antichi mi sembra persino di trovarci un sapore bello. In fondo è blu: blu come il cielo che ci si aspetta: oggi è primavera, la natura ce lo racconta con i suoni e i colori. E blu è l’inestricabile malinconia di una mattina che scivola nel giorno senza quasi scopo, con la solita ansia di tutti i tempi, altro che coronavirus. Blu notte, quando arrivano le notizie quelle brutte: alzare la palizzata e proteggere chi è più fragile, non riesco a pensare ad altro. E allora esco, esco in terrazza a parlare di Calvino, improvviso cose a braccio, cose che non mi ero appuntata, riflessioni che mi escono dai circuiti dei pensieri: oggi parlo di leggerezza, di scienza, di necessità di farsi Perseo.

Perseo che con le ali in quell’azzurro ci si porta: a guardare dall’alto questo disastro che ci sommerge mentre annaspiamo. Oggi è così, oggi si annaspa tra gradazioni di blu e azzurro: sfuma la tensione del lavoro settimanale, remi in barca, ci si lascia scivolare in questo mare immaginario, ché fuori è tempesta calma, fuori è l’inferno che non si vede, ma sappiamo che è così.

Oggi ho tanto da fare, tanto che non ci riesco. Ne parlo con gli amici, viene fuori che non sono l’unica, che in questo tempo lungo tutto si frammenta e la concentrazione si infrange sul muro delle paure, delle angosce, della vista corta. «Come va?». Così così. Non sappiamo quando finirà, non ci resta che sperare, e così home diventa hope. Teniamocela stretta, la casa.

Vedo coste di libri, li tiro fuori: lo devo leggere. Poi lo accantono, insieme a mille altri, insieme a progetti che intravedo sulla parete azzurra. Azzurro è il mio colore preferito. È il mare che non vedo, il mare che aspettavo: è il 20 marzo e forse non vivremo la primavera.

Me lo scrive un’amica, «Sai cosa mi manca di più? Di cosa mi sento maggiormente privata ingiustamente? Di marzo. Di aprile, di maggio, di quei periodi in cui ti sembra che tutto (ma tutto cosa poi? Non importa!) stia per e possa cominciare». La birra in una mano, Leopardi nell’altra: perché il dì di festa è oggi, ma la stagione è miope, serpeggia il sentimento indicibile di un’estate che salterà. Qualcosa di diverso, qualcosa che intaccherà quel bioritmo sul quale avevamo imparato a plasmare la nostra felicità di generazione precaria. Basta poco, alle volte.

Tagadà trasmette da giorni inviati al fronte. Li cerco su google: hanno più o meno la mia età. Spero siano tutelati, almeno loro, che lo fanno con uno spirito molto più nobile del mio. Ci voleva un’epidemia globale, per farmi contattare il sindacato. Per farmi, mio malgrado, sentire parte di un gruppo di persone che non ha mai smesso un solo attimo di lavorare per proporre cibo ad affamati di informazione. Un po’ mi arrabbio: i miei e gli amici mi passano articoli, lo sai? sì, lo so, è arrivato il comunicato stampa. Privilegi e piaghe: chissà come andrà a finire, ma va bene così: ci sono quelli con i negozi, ci sono quelli che saranno licenziati. Ci sono i malati, i parenti, le salme che non hanno più spazio. I funerali che saltano.

Intanto, pomeriggio il sole si tuffa tra le scaffalature della libreria: un’esplosione tale di azzurro tale da non vedere il blu che avanza, la notte della vita, la notizia che non volevi sentire, quella che ti spaventa, quella che sancisce una barriera tra te e loro, i contagiati, i coraggiosi e schiene dritta, e la scribacchina. «Positiva alla bestia»: le parole di una collega. Resto senza fiato, io le perdo, le parole.

Eppure di parole sono piena: più di mezzora di diretta facebook inaugura le trasmissioni su A contrainte mentre spiego Torino di carta e vedo gli amici in diretta che mi seguono, e un po’ è bello, mi diverto e non mi inceppo mai, a parte quanto cade la rete. Dati, flussi, canali: intasati, in questi giorni. Me ne accorgo: sono rallentati, ci vuole sempre un goccio di più. Cerchiamo di stare calmi, cerchiamo di non arrabbiarci, cerchiamo di allentare la tensione. C’è bisogno di relax. C’è bisogno di questo silenzio che libera nel cielo solo tanti cinguettii. Dov’erano prima? Dove eravamo noi? Calati nel presente. Piccoli segnali tra i bit e gli orizzonti.

«Perché è questo che facciamo noi narratori, ristabiliamo l’ordine con l’immaginazione. Infondiamo speranza, senza sosta» Saving Mr Banks.

Inno della giornata, a volte stridente, Azzurro, Paolo Conte version

Cerco l’estate tutto l’anno
E all’improvviso
Eccola qua

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Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!