Lunedì, ti svegli, ti metti al computer. E ti ritrovi senza lavoro. Succede proprio così: è il 23 marzo, quindicesimo giorno di quarantena, e all’improvviso, non sono nemmeno le 11, una mail ti avvisa che da oggi, anzi, preferibilmente da venerdì, non lavori più per il giornale per cui scrivi, ti sbatti e fai più ore dell’orologio da quattro anni.
Una specie di bolide luminoso a ciel sereno: passa qualcosa, c’è un fenomeno che scuote l’atmosfera tutta intorno, ma apparentemente non si vede nulla. Sì, ok, è vero: poteva andare peggio, potevamo ammalarci, potevo finire – io, o qualche mio caro – in ospedale. La gente muore anche qui vicino, volti noti e consueti che non vedrai mai più, il virus abita tra noi. Giusto, giustissimo: ma io sono senza lavoro. Io e chissà quanti altri. Magari partite iva come me, che non basta il decreto Cura Italia da 600 euro al mese, perché nella iella sono pure una sottocategoria di lavoratore autonomo, iscritto a una cassa che non è l’Inps per ragioni di ordinamento professionale. Sempre tutto facile, sempre tutto lineare.
La situazione non è bella per nessuno. Come affermare il contrario? Ma almeno qualcuno le tutele le ha dalla sua, ha una vaga idea del futuro. Invece nel mio lunedì mattina improvvisamente viene giù una serranda che impedisce di veder più in là del mio naso. Come? Non c’eri già abituata? Generazione precaria, miopia del futuro e tutti quei discorsi lì?
Infatti, forse ci ero già abituata, e quindi cambia poco. Cambia che sono a reddito pressoché zero da oggi a chissà quando. L’affitto di una casa dove non sto nemmeno abitando da pagare, il curriculum che si trova un buco, e prende l’ansia nello stomaco, quella che ti spinge a non fermarti, a inventarti cose. Adesso però è difficile, adesso è tutto chiuso: adesso non si può fare niente, si può solo aspettare.
Mentre scorre la mattinata con questa sensazione addosso, quella di quando prendi un colpo e aspetti tre secondi prima che il male si scateni dandoti alla testa, ripasso le ipotesi future, labilissime, faccio la conta di quanti continueranno a lavorare mentre l’unica sfigata che in questo gioco distopico ci ha perso tutto sono io. Inevitabile: penso che ho buttato tutto ai rovi, che ho sbagliato, più volte, che ho sperato, ingannandomi, che mi sono rilassata, illudendomi. Cerco di arginare il veleno, ma è molto, molto difficile.
“Hai molte risorse”, dice qualcuno. Frasi fatte. È da luglio che invio proposte e ricevo il nulla indietro. Se già prima era così, figuriamoci ora. Che poi, questo fatto dovrebbe indicare che tutto sommato la voglia di respirare altro e cambiare era in me già da mesi, e questa forse è solo un’occasione inaspettata. Il problema è che si porterà via tutto, anche quei pochi margini che c’erano prima: trovare collaborazioni da freelance, in questo stato, sarà pressoché impossibile senza contatti e conoscenze. Lo scrivo qui, oggi, 23 marzo, a testimonianza di quel che sarà. Questo lavoro l’avevo trovato così, per fortuna, per azzardo. Erano esattamente quattro anni fa, avevo bisogno di cambiare, di superare, di crescere, e mi è andata tanto di fortuna, mi ha invogliato a mettercela tutta, a sbattermi. Ho plasmato gran parte della mia vita su questo lavoro. E adesso?
Alla radio parlano di maggese, la pratica di lasciare i campi fermi per un anno, terreni improduttivi che però reintegrano minerali preziosi per tornare a essere ancora più fertili. Si migliora così, forse? Bisogna aspettare perché migliori tutto intorno? Non lo so, ma altre strade, per ora, non le vedo.
È questo pensiero che mi tiene a bada l’ansia. Questo pensiero, la rassegnazione, il sentimento profondo che mi indica questa perdita come una possibilità di ripartenza, magari migliore. Anche se il mio pessimismo resiste, scalpita. Pomeriggio all’improvviso mi ritrovo con i miei genitori di fronte a un rocchetto di 200 metri di lenza tutto pasticciato. Sono da poco passate le due, pazientemente iniziamo a srotolarlo per rimetterlo a posto. Anse, curve, nodi, intrecci, blocchi, intoppi. Ogni tanto dobbiamo fare un taglio, un’aggiunta con nodo marinaro. La lenza non perdona. Anche se del perché 200 metri di lenza siano usciti fuori da una scatola inutilizzata da anni, dove del resto torneranno, non c’è traccia. È una metafora, penso, una metafora perfetta per dare un senso a questa giornata vuota che mi si srotola davanti e fa nodi e intrecci, in cui come da prassi, dopo tre ore a fare e disfare la tela che nemmeno Penelope, destinando tutti i pensieri all’inseguimento del capo del filo dentro alla matassa fittissima, non combino niente.
La pasta madre prova a lievitare in un barattolo. Stamane mi sono svegliata leggendo un post ironico: come riempire le pagine bianche delle agende i questi giorni? Io ci scrivo nomi di testate a cui bussare, speranzosa di proporre progetti validi. Scrivo progetti editoriali che non posso proporre perché il momento è pessimo. Scrivo arretrati che mi restano incredibilmente da fare: tutti i lavori non pagati che mi riempiono la giornata, e che tuttavia non hanno un briciolo della forza vitale che era il mio lavoro.
Penso a tutta la gente conosciuta in questi quattro anni, alle mail, agli eventi, alle strette di mano, alle scoperte. Penso che non sarà più nulla di tutto questo. E mi si stringe il cuore, perché il mio lavoro mi piaceva. Era da sfigati, da sfruttati, da ingenui, ma mi piaceva lo stesso. «Non torneremo alla normalità, perché la normalità era un problema» leggo da qualche parte nella massa di contenuti che girano online in questi giorni. Esatto: non andava bene lavorare senza tutele, senza gratificazioni, senza un salvagente. Ora è arrivata l’onda e io affondo. Sperando di approdare a lidi migliori non so quando e nemmeno dove, in un mondo nuovo.
Sognando un tempo azzurro dove non pensare a niente che generi, immediatamente, una vagonata di ansia venefica: Pure shores, All saints
I’ve crossed deserts for miles
Swam water for time
Searching places to find
A piece of something to call mine
Leggi tutte le giornate del mio diario di quarantena: 25 giorni a casa.