L’immagine che mi torna, a notte ormai, ripensando alla giornata di oggi, ventesimo giorno di quarantena, è un piede alla finestra. Questa mattina sono uscita dopo una settimana esatta: c’era da fare la spesa, c’erano da comprare i giornali. Guanti di lattice in tasca, zaino e cappotto, eccomi che scendo e riassaporo la libertà dell’aria come mai prima, c’è il sole ed è gradevole, seppure con un po’ di vento. Ecco il mare, un pattuglia dei carabinieri, qualcuno in coda fuori dal negozio di alimentari, qualcuno che legge i manifesti dei morti.

Scanso tutti, infilo i guanti, compro una mazzetta di giornali paurosa, chissà se li leggerò. In ogni caso, poi, mi metto in coda col mio bottino di carta nello zaino pe entrare nell’attiguo piccolo supermercato. La piazzetta è bellissima, raramente uno se ne accorge, forse c’era bisogno di questa calma per alzare gli occhi e rendersi conto delle ringhiere in ferro battuto, delle persiane verdi che giocano con i riflessi di questa primavera strana e con il verde vivo delle foglie del ficus. Scatto una foto, il quadro mi piace, mi ricorda che siamo in Liguria, che ho i piedi su un acciottolato che riproduce lo stemma della mia città.

Poi sposto lo sguardo, ed è lì che mi viene da ridere e vorrei fare un’altra foto ma mi vergogno un po’, e poi i guanti di lattice impicciano, non riesco a usare così bene lo schermo. Insomma, ruoto la testa e tra le fronde e le persiane lo vedo. È un piede. Se ne sta dritto, rilassato, verticale: interrompe la geometria rettangolare di una cornice di finestra che si affaccia sulla piazzetta, in pieno sole. Sorriso. Questa è una dose di calma e ironia miste insieme che mi accarezza l’animo in questo strano sabato mattina in cui non c’è il vociare del mercato, la coda di auto nella via stretta, la gente ovunque. C’è solo un piede alla finestra, si gode il sole, e forse il suo proprietario è svaccato come lo immagino, su una poltrona, o una sedia di paglia, a leggere il giornale oppure un libro in cui immergersi.

La commessa mi chiama, è il mio turno e avanzo abbastanza sicura, con i guanti. «Ti pregherei di metterti del disinfettante» mi indica il dispenser. «Anche sui guanti?», sì, anche sui guanti. Spruzzo il liquido, si impasta con il nero lasciato dai giornali poco prima, goccioline cadono, faccio come se mi lavassi le mani ma il lattice resta fradicio. Brandisco il cestino e procedo: meglio tacere. Svolto gli angoli delle corsie, una signora inchioda e mi sorride: guai a sfiorarsi. Aspetto a debita distanza in coda, intanto mi accuccio per prendere una cosa nello scaffale basso. Cassa, zaino, bancomat. Liberi tutti.

La strada del ritorno dura troppo poco, ma questa volta è più deserta di sabato scorso – si dice più deserta? È mai possibile? – un altro lembo di mare, lo mando a memoria con i suoi brilluccichii di luce, il cartello del divieto di accesso per le auto simbolicamente a guardia di quel quadrato di orizzonte azzurro. Salgo, passo dopo passo, e rallenta la ragazza col cane per non incrociarmi, e accelera un tizio sportivo che porta la spesa. Lo lascio andare, intanto cerco di togliermi i guanti senza contaminarmi, anche se poi il balletto per aprire il bidone condominiale e buttarli probabilmente mi getta addosso palate di germi.

La camminata – che poi, sono pochi passi, altro che la camminata che vorrei fare, scalpitano le gambe – mi ha distesa: è tornata la primavera, c’è calma. Che poi è paradossale: oggi si sente che è sabato, anche se in fondo c’è la stessa calma degli altri giorni ormai. Sarà il sole, sarà la disposizione d’animo, sarà che quei pochi che ancora vanno a lavorare sono calmi anche loro, oggi. E dunque si respira proprio quest’aria di sabato, come se fosse normale, come se fosse un brutto sogno che è passato, ora un caffè e iniziamo la giornata.

Con la sensazione di calma addosso registro ben quattro puntate radio. Al piano di sopra bimbi e adulti si scatenano mentre parlo, o forse non è che lo fanno mentre sono al microfono, lo fanno sempre, il punto è che se registro si sente. Si sente il bimbo che piange, di notte, il papà che russa, le corsette, la mamma che sgrida, i mobili che si spostano, gli oggetti che cadono. Continuamente. Devono sentirsi in gabbia questi due, lui sui tre anni, il fratellino che non ha nemmeno un anno. Un inferno di urla. L’altra mattina il papà è sceso con il più grande, lo abbiamo visto dal terrazzo: entra in macchina? Ma che fa? Dove va? Da nessuna parte: cambia ambiente, lascia la mamma libera per un po’. E intanto lui gioca col piccoletto, ripetono in tre lingue – la loro, un’altra e l’italiano – i nomi delle parti dell’auto. Lui si calma, il papà è rassegnato, la mamma forse respirerà. Dialoghi tra balconi e finestre: oggi arriva un motocarro di un coltivatore che porta frutta e verdura, sento chiedere giornali, sento dire «è come una vacanza», ma chi è a casa dal lavoro pensa con angoscia all’affitto da pagare.

Calma, pur nella disperazione c’è bisogno di calma, di lucidità. Ci sto provando anche io: tornare a un ritmo umano, a una gestione del tempo e delle risorse – hai tante risorse! Risuona in testa la frase di commiato dopo lo stop del lavoro – che non generi tonnellate di ansia, perenne ansia, costante ansia. Da quando è iniziato tutto questo? Dal dottorato? Dal lavoro? Scadenze, urgenze, tonnellate di lavoro senza una cornice che le contingentasse, il tempo fluido dello stare a casa senza sapere da dove cominciare, sentirsi privilegiati e tuttavia isolati, doversi mettere alla prova, ma aspetta, un attimo, l’avevo già fatto, mi lasciate respirare un attimo? Non so dove sono, devo calcolare la rotta.

La rotta, la parola di oggi: le cose che si rompono, la colla vinilica per tenerle insieme: tanto diventa trasparente, tanto poi non se ne accorge nessuno. Ma la toppa di colla si vede lo stesso, e poi si secca, e poi si stacca, e nel mulinello delle ansie e dei doveri arrivano i sensi di colpa, sempre più grandi, onde rinforzate dalla tempesta. Che cosa ho sbagliato, quando è successo, perché? Quanto cinismo: il distacco da ogni passione, la presa di distanza da ogni entusiasmo, progetti che sfarinano, volti che si allontanano. Perché ci hai già investito tutta te stessa, ed è sempre andata male, ti sei sempre sentita tradita, mai inclusa, mai accolta, mai valorizzata per l’impegno che ci metti. Come un alambicco: goccia dopo goccia, tutta la tua voglia sincera dei vent’anni se ne è svaporata via così, non ne è rimasta più davanti a una serie infinita di porte chiuse che nemmeno in un film distopico, in un incubo dove bussi, bussi, e nessuno apre, e il mostro arriva e ti prende.

Pomeriggio fuggiamo, silenziosamente andiamo in campagna perché il sole è un invito di grazia, e perché in fondo nessuno mi insegue, posso lasciar andare, e concedermi un paio d’ore di letture al sole. Con me ho A libro aperto di Recalcati. Certo, la psicanalisi non è il mio pane, ma mi prende, e mi consola, la teoria per cui si sarebbe letti dai libri, e ci sarebbe un sostrato precedente al linguaggio, individuale per ciascuno, e derivante da un agglomerato di emozioni, affetti, parole, cose. Lalingua, pare che Lacan la chiami così: magari sto dicendo bestialità perché non ne so nulla ed era la prima volta che ne leggevo. Ma credo di averla capita così, e se l’ho capita giusta mi consola, mi rilassa, mi fa capire che è tutta una questione di soggetto, di inconscio, che in fondo non ha senso paragonarsi ad altri, perché siamo unici.

Certo, è complesso quando la macchinetta infernale che porto in tasca, il cellulare, pulsa messaggi e ti ricorda che gli altri sì e tu no, e ti distrae dal filo della lettura, e ti aizza le ansie, le cattiverie, riaccende le paure per il futuro. È difficilissimo, altro che. Ma piano piano, con calma, io confido che questo tempo vuoto potrebbe dare dei frutti. Smaltire gli arretrati, è fondamentale, perché poi si potrà ripartire a costruire, sulla base delle proprie idee.

Sta sera, dopo aver visto un pezzo di Sapiens, che ormai è il mio appuntamento di fiducia del sabato, e dopo aver ripreso una puntata di Il romanzo italiano, dove una giornalista intervista e chiacchiera con scrittori ogni volta in specifiche città – oggi eravamo a Roma, e mi sono resa conto della distanza abissale tra la mia cittadina di provincia, sul mare, e il centro pulsante delle cose – ho riflettuto sul fatto che negli ultimi tempi la mia vita ha avuto scarti di quattro anni. I primi quattro anni di università, il periodo dei viaggi, le lauree e le tesi, la libertà, il caos esistenziale con la ridefinizione e il dottorato, e poi l’ultimo quadriennio, quello dove credevo che i trent’anni avessero sistemato le cose. Invece no, altro giro, altro cambio. Con meno ingenuità per guardare a un futuro difficilissimo, con meno voglia di continuare a investire in strade che si piegano indietro come boomerang pronti a tirarti un pugno nello stomaco. Ci deve essere stato inceppamento, in questo mio percorso: leggo Recalcati e mi convinco che fare analisi forse potrebbe piacermi. Scavare, scoprire quando, come e perché sono diventata così cinica.

Intanto, mentre le domande  e i pensieri di domani restano sospesi nell’atmosfera, oggi è l’ultimo giorno con l’ora solare, il lievito gonfia la pizza, arriva una videochiamata e tutto il resto del silenzio è come giustificato da mattoncini che si sono posati l’uno sull’altro nei mesi, negli anni. Era un sentiero disegnato, c’erano già un sacco di crepe, e questa quarantena non ha fatto che da detonatore. Ma nel silenzio, in una specie di indifferenza. Torno a domandarmi perché, e non me lo spiego. Mi dico solo che è necessario dotarsi di calma, un passo alla volta, anche piccolo: qualcosa succederà, qualcosa si rimetterà in piedi. E sarà tutto diverso, probabilmente, come in fondo è sempre stato a botte di quattro anni. Solo che prima era quasi naturale, era nel corso delle cose, oggi invece è calato giù il sipario, i manifesti annunciano un nuovo corso delle cose.

Sguarnita di canzoni lancio un pezzo sempre bello, I say a little prayer, Aretha Franklin

The moment I wake up
Before I put on my makeup
I say a little prayer for you

Leggi tutte le giornate del mio diario di quarantena: 25 giorni a casa.

Author

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!