C’è vento oggi, giorno 24 della quarantena. Lo so perché, dopo una mattina incastrata male tra inceppamenti burocratici, male alla cervicale e tempo buttato – attenzione, questo concetto tornerà – esco in mezzo alla città deserta per andare in edicola. Una cosa che forse non avevo mai fatto: uscire solo per prendere i giornali. E non a caso eh, non è “prendo i giornali” per avere qualcosa di casuale da leggere: no, oggi ci sono due giornali che mi interessano perché dentro ciascuno c’è un pezzo che voglio leggere.
Su Repubblica infatti Rosella Postorino firma un meraviglioso articolo dedicato a La strada di San Giovanni di Calvino. Al centro, una vignetta-ritratto di Tullio Pericoli, tutt’intorno un ricamo di concetti che si accostano perfettamente ai miei studi e che riprendono quella casa in mezzo a due mondi, Villa Meridiana, quello sguardo a metà, quello di Italo, rivolto allo struscio del centro di Sanremo e scocciato di salire in campagna col padre Mario, quel paesaggio dell’anima, quella conformazione del mondo. Che bellezza, che soddisfazione sapere di aver studiato anni argomenti che oggi meritano di stare sul giornale a piena pagina con una firma di un nome di eccellenza della letteratura italiana. Un nome che ha abitato questi luoghi, e che sa, ha visto. È una sensazione appagante, per una volta – rarissima circostaza – mi dico che so, e non mi viene la curiosità di andare a leggere e approfondire perché quelle cose lì le ho già, sono già mie. Tornarci volentieri è una certezza, ogni volta.
Ma Calvino riletto da Rosella Postorino oggi è solo una piccola gioia, perché oggi domina il nulla. «Non ho fatto nulla», parte un whatsapp, è già sera. Uno dei tantissimi messaggi che oggi costruiscono il reticolo della giornata. Bisogno di sentire le persone, bisogno di saperle, e di conseguenza di sapermi. È per via del secondo articolo che leggo, lo trovo sul Secolo XIX ed è un reportage dal reparto di malattie infettive di Sanremo. C’è un nome di fantasia, ma io conosco la voce che parla, e quando parla non lascia spazio a frottole. «La senti mentre ti consuma e ti porta via tutto» racconta della malattia, del Coronavirus che tutti ci rigiriamo in bocca senza forse aver bene chiaro cos’è, quanta forza malvagia getta addosso. «Provi una fame d’aria inspiegabile»: leggo, e piango. Un magone profondo che mi incolla a contemplare la realtà, la pura cronaca dei fatti, quello che succede, quello che vive la mia amica, quello che deve aver provato, e che racconta solo ora, dopo giorni che non la sento, giorni in cui non ho smesso un attimo di pensarci, ero preoccupata.
Quando leggo è appena esploso l’ennesimo fiotto di rabbia: oggi, 1 aprile, manco fosse uno scherzo sinistro, è stato il giorno del blocco del sito dell’Inps, delle mail che tornano indietro dall’Inpgi. Tutti richiedono il bonus, tutti vogliono la propria parte di salvagente. E io mi arrabbio. Mi arrabbio perché non funziona niente, e non funzionava nemmeno prima. Mi arrabbio perché non si possono mettere sullo stesso piano persone da quattro soldi al mese e altre con un reddito annuo da trentacinque mila euro. Mi arrabbio perché si sapeva, era prevedibile. Mi arrabbio perché è una storia già vista e una storia che rivedrò. Il cinismo: eccolo. Una generazione persa dentro un buco: lo dico via messaggio con gli amici, e gli amici lo sanno, gli amici parlano come me, da cinici, da disillusi.
«A noi non spettano i premi, ma solo raccogliere i cocci» leggo mentre la giornata trascorre dopo aver tentato di mettere a posto documenti complessi e attorcigliati per colpe altrui e certo non mie. Incasellavo, tenevo ordine, ma l’ordine regolarmente veniva scompaginato da inattendibilità, ritardi, promesse mancate, rimborsi mai visti, illusioni di crescita professionale. Sarebbe anche tempo di dirlo, che tutto questo è un veleno che lascia in mano solo il nulla enorme fatto di polvere, quella che contemplo oggi, oggi che presa tra pianti e zero voglia di pensare al futuro mi sento crescere dentro un raconcore furioso.
«Perché ti arrabbi tanto?» mi invento un dialogo su Facebook, mi rispondo da sola: «Per questa differenza. Per quella faglia che si apre tra la crudeltà dei fatti, la vita reale e le cose serie, e la pochezza dei sistemi, i chiacchiericci, la costante mancanza di cura nelle cose». Nessuno ha pensato al sito dell’Inps che sarebbe stato preso d’assolto, nessuno ha avuto le competenze per progettare o risolvere. Quelle competenze che noi – la mia generazione persa – avremmo, quelle sfide a cui siamo perfettamente abituati, perché nulla è mai certo, stabile, garantito. Non lo è mai stato, e questo tempo spaventa persino poco, nelle sue conseguenze economiche: azzera, riparti da capo, da parte non hai niente salvo cisterne di cinismo in crescita. Si può essere arrivati a tanto, a 33 anni? La rabbia, la stanchezza, lo schifo.
Viene mal di testa: non funziona niente, niente è giusto, niente cambierà. La mia amica ieri mi ha mandato un messaggio che mi ha incollata allo schermo: «alla fine le circostanze stanno dimostrando che siamo la generazione che meglio percepisce la gravità della cosa e che davvero, al di là dell’ironia, saprà adattarsi a un futuro prossimo di ridimensionamento». Succedeva già prima: niente stipendio, niente benefit, niente garanzie. Niente: una parola che riempie ogni interstizio di questa giornata fancedosi presenza viva. Perché non combino niente. Solo parole, solo chiacchiere, peraltro destinate ad altri: chat, e ancora chat, divertenti, arricchenti, piacevolissime. Bisogno di sentirsi.
Cin cin virtuali e risate, inviti a cena quando “poi” sarà passato tutto. Intanto alle otto di sera passate Conte sancisce per decreto quel che già sapevamo: si continua, almeno fino al 13 aprile, ah ma perché lunedì, scusa? Ah, già, è Pasquetta. Sarebbe Pasquetta. «Alla fine saremo contenti e felici di poter stare insieme già solo per il gusto di farlo, e che sia a una cena a casa piuttosto che in un ristorante peserà meno. Come tutto sommato ci pesa meno che ai più anziani la rinuncia ad uscire. Non so, di questa concretezza che rasenta il cinismo forse ne farei una bandiera» proseguiva il messaggio della mia amica. Sarà una Pasquetta come tutti gli altri giorni, come tutto il resto, piena forse di niente, un niente dentro al quale c’è un intero universo pressurizzato che aspetta di vedere, aspetta una mano, aspetta un cambio alla guida.
Tutte belle persone, tutte persone vive, con storie, competenze, parole e saggezza: sono tutte loro che arrivano oggi a riempire il mio niente. E tutto sommato, mentre la giornata trascorre vuota, sento di essere molto fortunata: non è vero che non c’è niente. È solo, come sempre, tutto più difficile.
Se dico nulla, vuoto, momenti inutili trascorsi così, mi viene in mente solo una canzone: Niente, Sergio Cammariere
Non voglio dire niente
Ma il niente parla più di me
Quel niente che
Quelle cose che erano
Particolari secondari e niente più
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