Quattro giorni che non mi muovo da casa. Oggi è il giorno numero 11, e di fatto non metto il naso fuori di casa da domenica sera. Lavoro, scrivo, scrivo un sacco, faccio video in terrazza, sento persone, ma oggi il tedio, la nuvola di pensieri in testa e la tensione sono alle stelle. È successo ieri, è successo di nuovo oggi: i miei genitori, con cui convivo da quasi un mese, mi sfiorano per chiedere di passare, o per avvisarmi di qualcosa, e io salto. Salto sulla sedia, mi salta il cuore in gola: non li ho visti, sentiti, qualcuno mi sfiora e io mi spavento.

No, non è per il contagio, non è per quello. È che la mia testa vive in una sua bolla autonoma. Stanchezza, lo ripeto: tensione. Rimbalza tra le mura di casa, mi torna indietro, mi schiaffeggia. Mi stacca dalle cose e quando mi riportano alla realtà, non me lo aspetto. Forse perché sono le solite cose, le solite routine, nessun orizzonte. Nessuna pace. Una valanga di arretrati di cose di una futilità inaudita che tuttavia rappresentano la mia unica sostanza di vita.

«Ridurre a zero la socialità», lo hanno detto i ministri in radio. Sono a casa, non vedo nessuno tranne i miei, non vedo gli amici, non li vedo da ere geologiche, mi si mozza il fiato. Che poi a casa io sono abituata a passarci giornate intere. Chi se li dimentica i weekend di ore e ore alla tastiera per scrivere il libro e, prima, a leggere, a suon di tre libri in due giorni? Eppure andava bene così, sapevo che c’era una missione, il tempo mi serviva, ero concentratissima. E altrettanto concentrata ero in sessione esami, quando capitava di non mettere il naso fuori di casa per – davvero – anche una settimana intera. Giornate scandite da una routine monacale: tot pagine al mattino, tot pagine al pomeriggio, eventualmente recuperi la sera, oppure serate di evasione.

Me lo hanno chiesto spesso: ma come hai fatto in così poco tempo a scrivere il libro? Rigore: ci ero abituata dallo studio. Mi viene in mente la scena dei fuochi di san Giovanni l’anno della mia maturità: dal terrazzo, la testa sporta in fuori con due cascate di lacrime perché ero chiusa in casa, io e la letteratura greca, il librone giallo da finire di studiare. Dicono che le scuole non riapriranno ancora dopo il 3 aprile, è facile che esca un nuovo decreto con la proroga. Si inizia a parlare dell’esame di Stato 2020: come sarà? Mi viene in mente la maturità della generazione di Italo Calvino, quella della guerra, costretta a lasciare i banchi prima del tempo. Era dal 1943 che non si vedeva una cosa così, mi viene in mente la Torino di Pavese bombardata, la scuola chiusa, solo il bidello, un tram spalancato tra le macerie e i ragazzi tutti via, tutti al sicuro, almeno si spera.

Libri, sempre libri: meno male che ci sono i libri a salvarmi un po’. Non ho mai avuto una vita sociale stellare, forse, ma una grande capacità di stare sui libri sì. Secchiona, per l’appunto. Altrimenti non avrei fatto un dottorato, scelta che mi ha portata, ancora e ancora, a passare ore in casa, a studiare, a fare riassunti, a scrivere saggi, a preparare lezioni che poi cronometravo raccontandole all’aria, e correggevo, e le lancette segnavano interi weekend tappata in casa senza relazioni sociali. Sono una brutta persona?

Eppure era un tempo prolifico, tempo da organizzare e organizzabile per risolvere tutto. Mentre qui, oggi, il tempo è un orologio alla Dalì, che si scioglie, inconsistente, fuori dal quadrante, perché non ha più senso niente. Il tempo delle ambulanze. Suonano dietro i giornalisti al tg, suonano sotto casa, quando scendo per andare in studio: neanche cambiare ambiente mi liberasse i pensieri che vanno allacciandosi in nodi stretti. Butto un occhio alla cabina di guida: mascherine. È un pomeriggio di sole bellissimo, i raggi scaldano dall’aria ancora fredda, la mia via è vuota, cinguettii che coprono lo straziante silenzio, e passa un’ambulanza a sirene spiegate che mi ricorda che non c’è niente di normale, nemmeno questo prolungato stare a casa dove ogni giorno accumulo cose che potrei fare per portarmi avanti ma non ne ho voglia, non ci riesco, non ho la testa.

Alle sei sono svuotata, fisso lo schermo e sento addosso il peso di interviste da sistemare, file accumulati, il peso di questo diario che mi costringe a tirare fuori le parole ogni giorno per lasciare una traccia di questo tempo, per vederlo e riviverlo quando saremo oltre, quando sarà passato. Oggi ho pensato che l’immagine della giornata, la processione solenne di camion dell’esercito per trasportare altrove le salme che a Bergamo non hanno più spazio, costituirà un simbolo amaro di quest’epoca. Mi sono chiesta cosa potrebbe rappresentare per un ragazzino del 2050 che la vedrà su un libro di storia: scelta giornalistica, scelta simbolica? La verità è che non mi interessa, perché per me è solo realtà vera e impensabile, prima di oggi, che passa sotto agli occhi mentre resto a casa.

Dire che casa era un’ambizione, il luogo della pace dove rifugiarsi quando il caos della città era troppo. La calma, gli angolini di mare, respirare lo iodio. «Sono al mare, sì, ma il mare non lo vedo», l’ho raccontato oggi alla radio, mi hanno intervistata al telefono su tutte queste piccole attività che sto conducendo giorni per giorno, da #NonEscoMaLeggo alle uscite in terrazza con Calvino. È stato bello, ho parlato a manetta come sempre, che novità. La lingua che si scioglie come le dita che cercano i tasti senza nemmeno più usare gli occhi. Dico cose, scrivo cose: è tutto quello che faccio da undici giorni. Mi confronto con uno schermo dal mattino alla sera. Capita, capita spesso, che non ce la faccia più.

Ma resisterò: è una contrainte anche questa. «Sotto costrizione» ha giustamente notato la speaker della radio che mi ha intervistata, questo significa à contrainte, proprio come i tempi che viviamo, costretti a casa, costretti a non vedere il mondo, la gente, gli affetti. Costretti ad abbandonare una routine che, per me, era sempre diversa, eppure costituiva il terreno certo della possibilità. Poter andare, poter tornare: la preziosità di casa.

Il Festival di Sanremo era solo un mese fa, lo hanno ricordato alla radio, e anche lì si sono stupiti: sembra un’altra era. Sbandiero la difficoltà agli amici in chat: non riesco a scrivere, non ce la faccio, ho la testa che esplode. Di pensieri, considerazioni, paure soffocate, desideri che sono lì in un barattolo con l’etichetta “dopo, ora state buoni, ci sono altre urgenze”. Non so se, come ci invitano a fare gli psicologi da talk show, impareremo a volerci bene in questa maniera. So che, tutto sommato, sto bene: sono a casa, sono con i miei, tra i miei, nemmeno litighiamo, cosa che sarebbe normale scaduta la prima settimana tra le stesse mura. Casa mia a Torino è una specie di sogno sfuocato, forse non è mai esistita, forse era un’altra vita, non lo so e non ho la forza per pensarci.

Studiare, dicono i professori: tempo per studiare. A casa mia – casa dei miei, come dico facendo la persona adulta, senza ammettere che resta e resterà sempre casa miaci sono tutti i miei libri da quando ero bambina fino all’altro ieri. C’è tutto quello che ho studiato, quello grazie a cui sono io, oggi, qui. Avrei una voglia di sfondare le pareti della libreria riaprendo cose che ho accumulato in attesa di vacanze e tempi appositi, ma non c’è verso che, in queste condizioni, possa riuscirci. Non c’è nessuna coccola dell’anima che possa sostituire il bisogno di stare con gli altri. No, proprio no.

Sto qui, aspetto, continuo a lavorare con il solo uso di un pc e di un telefono: più smart di così.  Oggi mi hanno anche detto che ho «i tempi radiofonici». Ma almeno, da casa, arrivo a Torino, arrivo in una libreria, in una cameretta, recupero le voci che mi ricordano del mondo che esiste fuori da qui, mi suggeriscono che esiste la me che fa cose. Non smetto di stupirmi, anche oggi, del potere di un telefono e della radio. Non sarò più colta, non avrò infittito l’elenco delle letture né tanto meno smaltito la pila sul comodino, ma questa capacità di acchiappare storie non mi lascia, ed è quel che mi riempie la testa adesso. Storie, sono tante, affollate, tutte diverse: storie dell’epoca del Coronavirus. Mentre cerco il tempo di scriverle, in questo tempo di casa che sembra stritolarmi, spero immensamente che arrivi tempo anche per leggerle.

Non del tutto casualmente, Misread, Kings of Convenience

And what do you know?
It happened again
A friend is not a means
You utilize to get somewhere

Author

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!