Le mani. Potrebbe essere la parola del giorno: il giorno 13 della quarantena. È sabato: non lavoro, non devo mettere le mani sulla tastiera, almeno non per lavoro, almeno per oggi. Dovrebbe essere una sensazione bella: sabato, tutti liberi, tempo libero da riempire. Ma siamo in quarantena e il tempo libero è un rimasuglio liquido che tende a provocare soffocamento. Mani in mano.
Potrei fare di tutto, e non lo faccio. Cincischio, il tempo scorre. La mattina è già alta, già avviata, quando rispondo al rituale della vestizione con stanchezza. Non lo facevo da un pezzo, stare attenta all’abbinamento jeans e maglia, cosa mi metto, cosa mi sta meglio, con cosa mi sento a mio agio. Per andare dove, scusa? Chi ti deve vedere? Oggi è sabato e la missione è quella di uscire di casa, luogo da cui non evado da domenica sera, e andare a fare la spesa.
Esco dunque di casa con una voglia esagerata di sole e aria, ma non è come sarebbe se fosse tutto normale. Ho la giacca leggera, fa caldo e ci sta, ho lasciato la sciarpa “metti mai che te la devi tirare sul viso”, ho lo zaino, perché andrò a piedi e caricherò la spesa in spalla. Lasciatemi almeno camminare per questi pochi metri. Soprattutto ho i guanti, quelli di lattice “da dentista”. Esco di casa così, un po’ banda bassotti, un po’ paramedico.
Scruto le mani fasciate dalla gomma che si attacca a ogni cosa: non riesco a chiudere la cerniera delle tasche, ci resta incastrata dentro, non riesco a scattare col telefono le angoscianti foto di un sabato di primavera che bacia di sole e profumi di fiori questa città. E scendo giù, un’atmosfera incerta, con le mani guantate che accarezzano l’aria. Si suda, dentro il lattice.
Si suda perché l’ansia è palpabile in questa immobilità artificiale – o naturale, infine? -, perché ho già visto due pattuglie, si fermano in piazza, magari fermano anche me: mani in alto, aspetti ho la lista della spesa in tasca, l’ho dovuta scrivere sa, l’ansia mi divora, capace che poi entro al supermercato e mi dimentico le cose necessarie di cui devo fare rifornimento. Sì, ho anche l’autorizzazione, l’ho firmata, ci ho scritto spesa ed edicola.
In fondo è pur sempre sabato: nel mondo normale sarei uscita a comprare i giornali, oggi ci sono gli inserti culturali che mi piace leggere per scoprire nuove letture, che a volte studio immaginando che prima o poi riuscirò a scriverci pure io. Pivella che non sei altro, credi davvero che, se già era un mondo sbarrato prima, ora con la crisi che vortica sulle nostre teste ti sarà data qualche possibilità? Meglio non pensarci. Fatemi comprare il giornale, vi prego, ho i guanti, lo zaino, la faccia segnata da occhiaie profonde, non lo vedete che sono qui a fare la spesa?
La piazzetta è inondata di sole, aria tersa, pulita, poche persone transitano, schivo qualcuno all’edicola – i contatti sociali involontari sono diventati una routine ogni volta che sono per strada e io ho l’angoscia che cavalca nel petto. Robinson e La Lettura sono nello zaino, ci siamo scambiati soldi e carta con le mani guantate, io e l’edicolante. Ora è il turno della spesa. “Scusi è in coda?”, lo chiedo a un tizio in tuta che non ha né guanti né mascherina e aspetta fermo in piazza, lucertola al sole, occhi chiusi a godere della carezza calda. Mi risponde di sì, mi sorride, «mi godo il sole, sa» mi dice con accento lombardo. Certo, dico io, fa bene, finché si può, almeno quello. Mica come a Trieste, a Trento… città del nord che sembra lontano, che non sembriamo noi, eppure lui non ha la parlata ligure, ma parla al plurale, è una tessera di una comunità, la mia. Forse.
Qua davanti oggi sarebbe passata la Milano Sanremo, la classicissima di primavera, che, secoli di storia, tifoseria e abitudini di quella comunità di cui sopra, oggi ha ceduto. La strada è deserta, da Capo Berta in giù non c’è un’auto sull’asfalto assolato: ma non è la chiusura per la corsa ciclistica, no, è la chiusura perché siamo tutti a casa. Il silenzio, che ormai associo a questa condizione più della casa, della convivenza, del non vedere le persone care, ecco, sì, il silenzio è la cifra distintiva. L’anno scorso la mattina della Milano Sanremo prendevo un bus, andavo a Sanremo, vedevo persone e le ascoltavo parlare di ambiente, tornavo indietro ringraziando per il sole e il mare cristallo, al mare ci tornavo il pomeriggio, dopo aver visto la corsa passare in un flash su Capo Berta. Taglio del nastro per la primavera, benvenute speranze.
L’unica speranza, per il momento, è riuscire a fare la spesa. È il mio turno, il commesso con la mascherina mi chiama. Cestino alla mano, inizio la ricerca seguendo il foglio. Non trovo la farina, ah, eccola, non trovo il lievito di birra, pazienza. Non c’è niente che mi faccia venire la voglia di aggiungerlo all’elenco del foglio, solo due scatole di tisana, quella alla valeriana è la penultima, poi finiranno e io cosa berrò la sera per fingere di rilassarmi? Il pane mi manda in crisi: non so come toccarlo, ho i guanti potenzialmente contaminati, guanti nuovi in giro non ne vedo, siamo in due in tutto il supermercato e mi prende un panico che cancella ogni forma di razionalità in circolo. Lo lascio lì: niente pane, per oggi.
Quando arrivo in cassa i due ragazzi stanno parlando di corsa, di trekking credo. Sono di una cordialità rara, anche quando entra una signora anziana – un altro pezzetto di comunità – che con un po’ di confusione chiede cose. «Buona giornata» mi dice lui dietro la mascherina porgendomi lo scontrino, «buon lavoro» rispondo io pensando che non è per niente un buon lavoro.
Quindi verso casa, lo zaino e una borsa: è evidente che ho fatto solo la spesa, la pattuglia non mi fermerà. Capo Berta vuoto è devastante. Uno spicchio di mare brilla in una finestra tra i palazzi, il cartello col divieto di accesso per il traffico diventa una metafora beffarda della situazione. Mi arrampico verso casa, lo zaino che pesa, la giacca che tiene caldo. L’occhio mi cade su alcune bandiere appese fuori dai terrazzi: ah, ma allora c’è ancora vita, penso. Il tricolore sventola qua e là, a volte anche qualche arcobaleno. Respiri di normalità.
Ma oggi c’è un tedio strano che stringe lo stomaco: notizie che arrivano e altre che vorresti avere e non ci sono. La stasi, la stasi che implode ovunque. Non faccio niente. Necessità atavica di muovere le mani, azionarle. Passa un pomeriggio intero di nulla, incespica la lingua raccontando Calvino in terrazza, riesco a sbagliare una preposizione come fossi subcosciente, come non avessi il controllo di quello che dico. Perché forse è davvero così. Mi rassicura, la sera, un articolo di Minima & Moralia che mi conferma l’anomalia del mio stato psichico.
Mi guardo allo specchio: occhiaie profonde, scure. Come mai? Non ho fatto nessuno sforzo fisico, non ho fatto nessuna maratona di lavoro. Che siano le ore al pc? Le ore di lavoro e di ansiogeni click un po’ per monitorare notizie, un po’ per bisogno crescente di condivisione e ricerca di persone? «Non saremo più gli stessi», lo leggo, lo ascolto da Ilaria Capua nell’intervista video che ha fatto con Marco Montemagno. Me l’ha girata un amico, la metto su mentre impasto e cucino: una crostata alle tre marmellate, la pizza del sabato.
Mani che lavorano, mani che si muovono scollegate dalla testa: la testa non risponde, le mani sanno, per fortuna. Anche se manca l’energia, quel motore positivo che fa stare tutto al suo posto, che dà senso: senso come direzione, sapere dove andare. Mario Tozzi mi schiaccia davanti all’ennesimo sabato sera trascorso sola a casa: sono quasi due mesi. Pazienza, non importa, la gente muore, la gente che stava a pochi metri da casa tua e che non vedrai più.
Alle undici di sera passate il presidente Conte esce in diretta tv con gli occhi arrossati dalla stanchezza abissale: l’annuncio di un nuovo decreto. «Quando finirà?» leggo i messaggi su whatsapp, la testa esplode di sonno, pensieri e malesseri. Sarà lo stress. Mi addormento presto, il diario del giorno 13 lo scriverò la mattina del 14, ho preso gli appunti, ora lasciatemi provare a sognare tutti gli abbracci che mi aleggiano sull’anima come fantasmi.
E tuttavia, anche senza Milano Sanremo, è sempre primavera, non sempre servono parole: You must believe in spring