Parliamo di tempo. Il tempo che è trascorso da quando ho iniziato questo diario è quassù, scritto nel titolo: 37 su 25. Un assurdo, uno scherzo, ma perché lo hai lasciato così? Perché all’inizio dovevano essere 25, e sembrava già una pazzia, poi ancora un pezzetto, facciamo fino a Pasquetta, dai, sono 36, e poi ancora, superiamo la quarantena letterale – i 40 giorni – arriviamo fino al 3 maggio. Mi ero ripromessa di arrivare a 25 pagine di diario, poi ho detto vabbè dai, le estendo. Ora quello che si pone avanti è un orizzonte più lungo. Che faccio, proseguo? Penso lo farò, nonostante tutto: sto esaurendo le parole – eppure, mi viene da ridere, le parole sono pressoché inesauribili – mi sono accorta oggi che angoscia l’ho usata due volte, e mi è dispiaciuto, si sa che noi amanti delle contraintes cerchiamo di non contravvenire perché il gusto sta proprio lì, non uscire dalla regola. Ma è accaduto. E sì che sarebbe facile cambiare, trasformare una delle due angoscie, una all’inizio, una a Pasqua, in paura. Sì lo so, lo so: ce lo hanno insegnato i talk sulla pandemia e gli articoli di fondo, non è la stessa cosa. La paura conosce la sua causa, l’angoscia no. Chissà se cambierà la parola guida di Pasqua, cosa deciderò di fare in questo tempo che sembra infinito e invece non ne ho mai abbastanza. Intanto scarseggiano anche le canzoni, titoli che non ricordo, suggestioni che, sarà il clima, il tempo come cristallizzato, la stasi, non sempre arrivano.
Quella di oggi c’è, tranquilli, e mi piace molto. Più che una parola è una dimensione, quella in cui entro in questo giorno numero 37, martedì di quarantena che segue la Pasquetta. Oggi entriamo nel mondo dei sogni, la parola di oggi è sogno. Ci vuole coraggio, ci vuole spinta in avanti. Ci vuole, forse, solo un brutto sogno che non ricordo ma che alle 6 mi sveglia, e per essere andata a dormire che mancava poco alle 2 è un po’ scomodo. Non mi riaddormento, è tutto confuso, il mal di testa è potente.
Ragione per la quale dopo il caffè ci vuole un po’ per carburare. Rinfresco il lievito, finisco la caffettiera. È tardissimo quando decido di scendere in studio per combinare qualcosa. Combino pochissimo, credo sia la mattina più improduttiva della quarantena. Non riesco a concentrarmi, nemmeno ad ascoltare la radio. Pazienza: niente da perdere, solo una mattinata. È che poi, letti i giornali di sabato con mega ritardo e accesi quei due lampi vaghi in testa che mi ricordano di cosa farei nella vita – la giornalista, quella che cerca storie e le racconta collegando altre storie e magari provando a fare dell’analisi – mi assale un sonno destabilizzante. Sognare scenari diversi dal mio stato di stasi attuale non è sufficiente. Cado in una specie di torpore: ho i brividi di freddo, giro con due maglie e la sciarpa in casa. Starò male? Un po’ mi preoccupo, sono ansiosa, si sa.
In un attimo è pomeriggio. Non faccio niente. Guardo su Decameron la bella intervista dell’amico Giovanni Di Marco a Costanza Diquattro, autrice di La mia casa di Montalbano, e non serve nemmeno abbassare le palpebre: già sogno. La Sicilia, la sua luce, la sua gente, la verandina di Punta Secca (se non sapete di cosa parlo, qui c’è un mio itinerario sui luoghi di Montalbano). Succede che sono le cinque, le cinque passate. Mi faccio un caffè mentre il terrazzo di casa, tocca a lui questa volta, riflette la luce del sole. Continuo a sentire un freddo irreale, mia mamma mi chiama, «guarda, guarda lì a destra» e indica il palazzo di fianco al nostro. Al quarto piano c’è uno, anzi no, ci sono due piedi, una specie di lettino e un tizio in costume mezzo in casa mezzo sul terrazzino (intero non ci stava) che legge. Ci sgama in pieno, perché ridiamo come due sceme. Sul poggiolo di un palazzo ancora a fianco, più o meno alla stessa altezza, un signore anziano su una panca, completamente abbacinato dal sole. Lo sogno anche io: qui da noi solo ombra, che freddo che ho.
Perdo ancora un’ora così, nel niente: cazzeggiando al telefono, come propriamente si definisce l’attività che svolgo. Chatto con un amico, il discorso si intorciglia, prende malissimo, partono sottintesi, riferimenti celati, partono pure i nervi a una certa. Trascino le mie occhiaie in studio. Provo a scrivere, sono interrotta mille volte da messaggi. Quando sono a tre quarti del racconto conto le battute e ho già superato il limite minimo di un bel po’. Fermi tutti. Chiudere, ripensarci domani: oggi non era cosa.
La giornata è finita, in forno c’è il pane di farina di grano duro, alias segale, ho appena fatto esilaranti risate per una battuta spettacolare di un amico in una chat andata a male, l’umore mi risale, è condito di foglie di salvia in pastella che sono ahinoi buonissime. Anche oggi, la dieta la inizio domani, insieme allo sport. Sogni, per l’appunto.
Non la ascoltavo da anni, e invece oggi in un passaggio rapido di stanza in stanza, eccola che mi torna alle orecchie, con un sorriso e il pensiero che la Cina non sarà mai più pensata come la pensavo prima: Katie Melua, Nine Million Bicycles
There are six-billion people in the world.
More or less,
And it makes me feel quite small
Leggi tutte le giornate del mio diario di quarantena: 25 giorni a casa.