Tienila a bada, l’ansia, quando la giornata inizia in cucina, tu che ingurgiti la moka e i tuoi che sbucciano fave, e il grande e spinoso tema del lavoro che invade lo spazio e ti stana, ti prende alla gola, ti inchioda davanti ai tuoi 33 anni, reddito zero, o poco più, quattro anni di lavoro ammazzati metaforicamente dalla pandemia, e comunque manco prima andava così bene, solo che almeno c’era il paracadute. Adesso invece, si va giù liberi, senza protezione. Anzi, non si va giù: son già sul pavimento, a guardare i cocci e farmi spaventare da un domani che non vedo.
«Dovresti pensare a cambiare mestiere» sento dire, e mi offendo. E giù coi concorsi, come se i concorsi salvassero la vita, come, tra l’altro, se a me interessasse fare quel tipo di lavoro lì. Ma questo è un grande problema e nella mattina del giorno 38 della quarantena io gli argomenti per affrontarlo ancora non li ho. Ho molte ansie, quelle sì. Ansie di dover dar retta a questo ragionamento, che un po’ attecchisce, perché laddove c’è un territorio straziato e fiaccato da perpetue porte in faccia e svalorizzazioni, il pensiero di farsi le ore di ufficio e trovarsi lo stipendio a fine mese con tanto di ferie malattie e compagnia cantante, diciamolo, trova il suo ossigeno.
Rimandiamo a poi. Ci mettiamo i verbi al futuro, «tanto adesso non ci puoi far niente», e siamo tra i privilegiati – ed è vero, questo resta sempre vero -, e stai tranquilla che noi ti aiutiamo, e qualcosa faremo. Ma intanto c’è la scadenza, futura ma c’è. E lo sapevo già prima, lo profetizzavo molti mesi prima che si potesse anche solo prevedere questa storia assurda che segnerà il mondo intero. Sarebbero stati problemi da affrontare, lo erano, solo che si spostavano insieme a me, un passo avanti, un po’ di più. Ora invece sta tutto qui, nella valigia che ho archiviato in garage perché tanto a Torino, per ora, non ci torno.
Vado a capo, che equivale a un attimo di sospensione, un silenzio che abbraccia la casa vuota, i tetti lontani, la routine che non sarà mai più quella di prima. Chissà come sarà. Ho fatto salti mortali, ce l’ho messa tutta, quando ne avevo la voglia e la mia testa inquadrava il mondo con altre credenze e speranze. È finita così: son stata sfortunata, questo è vero. Magari avrei potuto fare di più, e questo è il rovello della mia esistenza, quello che quotidianamente mi porta a disprezzarmi e a osservare gli altri e le loro mosse. Sotto il diktat «cosa te ne frega degli altri» ho affrontato discussioni e discussioni in casa. Me ne frega eccome, ho sempre ribatutto: gli altri fanno cose, io no. Li devo ben guardare, gli altri.
Di queste ansie, però, in tutta onestà non ho più voglia. È un carico pesante, sfido voi a resistere. Mi ha devastato l’anima e i pensieri. Quindi scrivo, ci provo anche stamane, tanto più che la giornata si apre con la pubblicazione di un mio racconto per Borgo Rossini Stories, un modo delicato per tornare a Torino, un battito di cuore fugace, un pezzettino di me che ora è silente. Scrivere non è roba per chi pensi di sedersi ed essere baciato dall’ispirazione. Scrivere richiede costanza, metodo. La prima c’è quasi, il secondo latita totalmente. Ci penso, ci ripenso, invece di lavorare penso a questo. La concentrazione non tiene. Si frantuma. Intanto, nello strapazzo delle distrazioni, incappo sull’annuncio di un incontro per freelance, e quello sì che mi interessa, accidenti. Me lo segno. Mi dà un minimo di carica, così mando un paio di mail, imposto due racconti, vedo un video di Piemonte dal vivo sul jazz e mi prende una malinconia grande per tutte le cose vive e belle di Torino e del mio lavoro. Sì, oggi è davvero lavoro la parola che caratterizza tutto, sono lì con la testa, nei pensieri profondi.
Mi torna la voglia: curarmi delle cose, provarci un po’. Anche se spessissimo accade il contrario di quello che speravo, e non capisco perché, e sembra di combattere contro i mulini a vento. Ma sono io? «Devi avere faccia da culo» suggeriscono gli amici che hanno il privilegio di guardarmi da fuori. Ci provo un po’, qualche rotellina gira. Certo, non ho conquistato il mondo: oggi ancora no. Finisco un racconto che mi soddisfa, seguo l’incontro sui freelance che mi dà ancora più pacificazione, perché chi parla ha sì collaborazioni grandi e una concezione nobile della professione, ma dice un sacco di cose che predico io da anni, sola nella mia bolla. Tutto quello che sento, in pratica, l’ho già pensato, e mi ero sentita l’unica, l’idealista, la diversa, quella che si accanisce fuori dal coro e infatti resta fregata. Mi consolo tanto, tantissimo, qualcosa torna a sorridere.
Nonna intanto si riprende un po’, e questo è un pensiero positivo. C’è voglia di fare, piedi sui pedali, pensieri costruttivi, progetti, paure che si diradano, coraggio che gorgoglia dentro, anche se non ci vede, non sa vedere. Non ancora. È una cena bella. Adesso che ci penso, nonostante qualche tensione ovvia, sono a casa da più di 40 giorni e va tutto bene. Vuoi vedere che era lo stress della vita di prima? Chi lo sa. Prendiamo quel che viene, incluso un grazie da un amico, una risata, una domanda. La domanda riguarda il mio lavoro, quello che non ho più, quello per cui dovrò riaprire un cantiere da capo e tirare fuori una grinta che non ho ancora preparato. La risposta riprende un consiglio ascoltato all’utimo corso di deontologia che ho seguito, a febbraio, a Torino: «dipende da voi, da come al mattino giudicate la persona che vi trovate davanti nello specchio. E ci aggiungo: nel 99% dei casi, se non fai almeno un po’ di fatica, vuol dire che non hai fatto il lavoro che avresti potuto fare».
Lo scrivo perché è quello che mi muove, che fa sentire di aver agito bene, credendoci, oppure, viceversa, mi segnala le mancanze, dando benzina alla disistima. Quando qualcosa non va, io lo sapevo già prima, è sempre stato così. I compromessi sono, quotidianamente, montagne enormi e chi fa il giornalista lo sa benissimo. Non è questa la sede per aprire il dibattito. Qui vorrei solo appuntarmi la mia considerazione per i tempi che verranno, per quando, magari, mi rileggerò. C’è stata una giornata, la numero 38 di quarantena, in cui ho scoperto che non sono l’unica a vivere male la professione, a scontrarmi con mancanza di legislazioni e tutele, con sciatteria e compromessi. Mi sono sentita parte di una cosa giusta. Ho intravisto uno spiraglio. La sera ho raccontato come la penso a un’amica, la quale mi ha fatta sentire bene come non mi capitava da tantissimo: «Grazie per essere diversa. Questo ti garantirà il sapersi reinventare» mi ha scritto. Grazie, amica, sono le parole più belle che qualcuno mi abbia detto da un pezzo sul mio lavoro e sul mio essere me. Curano contrasti interiori, rendono limpida la visione, come quando non ci vedi e ti metti gli occhiali. Fanno sentire giusti, e se ti senti giusto puoi permetterti di sognare in grande.
Lo penso da un pezzo, quando osservo di sottecchi, quando scrivo i report mensili qua sopra e cerco di guardarmi da fuori, quando mi scontro col mondo e torno a casa a leccarmi le ferite: c’è del buono, in giro. C’è del buono che si sente, tum, tum, “fa rumore”. Spesso ho pensato che sarei diversa se lo avessi incontrato prima, questo buono. Ma la vita è così strana, chi lo avrebbe detto che arrivava la pandemia? Quindi prendo quel che oggi è in tavola, ed è bello, ed è buono, ed è grande, forte. Non giudica, non schiaccia, abbraccia e libera. Sta sera io vado a dormire così: abbracciata e libera. Lo avete notato? Io l’ho notato mentre lo scrivevo: sono gli opposti esatti di due condizioni insite della pandemia, cioè l’isolamento e il sentirsi in gabbia. Che io possa addormentarmi dopo 38 giorni che sto a casa e non vedo nessuno, sentendomi invece abbracciata e libera, è il regalo più bello del mondo.
E sì, è primavera, voglia di pedalare, voglia di sole e aria. La radio è complice anche oggi, perché Luca Barbarossa canta Bartali, Paolo Conte, e mi fa sorridere un sacco:
Sono seduto in cima a un paracarro
E sto pensando agli affari miei
Tra una moto e l’altra c’è un gran silenzio
Che descriverti non saprei
E sto pensando agli affari miei
Tra una moto e l’altra c’è un gran silenzio
Che descriverti non saprei
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