La situazione non è bella, non va bene, non si aggiusta: la conta dei morti è impressionante, il contagio non è ancora diminuito. Dicono che il picco sia a breve, poi la curva dovrebbe calare. Preghiamo che sia vero: ogni tg è un bollettino di guerra che serra lo stomaco e fa venire i brividi. Su tutto, l’interrogativo dominante: e se fossi io, se capitasse a noi?
Empatia, ne ho già parlato in questo diario. Eppure ritorna: la capacità di mettersi nei panni altrui. Dono prezioso, capacità da apprendere, esercitare, affinare. Per ricucire le ferite che escono di notte – le notti della quarantena – e che fanno male, hanno bisogno di carezze. Dunque, si parte dalla colazione rilassata: caffè, crostata, un libro. Un racconto lungo, in realtà, che bevo tutto d’un fiato ancora in pigiama. La sto prendendo come una strana vacanza, anche se, lo ribadisco, sto sempre lavorando, anche se a scartamento ridotto.
Difatti eccomi pronta a partire, dopo un secondo caffè, quattro pagine folgoranti del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa che mi mettono addosso gioia di vivere e bellezza, e dopo la solita lacrima facile di questi giorni strani, dovuta al racconto di un’amica. Una storia tenerissima e insieme molto tenace, di sentimenti che scoppiano in pancia e bisogna far uscire allo scoperto, spedire oltre confine. Mi sento forte, piena di orgoglio per i miei cocci che stanno insieme in questo caos. Non sono l’unica, qualcuno è perso come se non più di me, ma qualcuno risponde all’una di notte e lenisce con sapienza, qualcuno semplicemente c’è, e sprona.
Oggi è una giornata di balconi, terrazzi e affacci sul mondo. Perché stare chiusi in cameretta a costruire muri a suon di cazzuole forse non è la strategia corretta. E allora serve calma, servirebbe la leggerezza lieta di un lunedì di sole, vento e tempo. Eccoli: sono qui. Ma no, non è proprio così: siamo ai tempi del Coronavirus e il quadro incantato mantiene una vena ombrosa che stride e stona. La solita morsa di angoscia che chiude lo stomaco, il solito stupore quando per cinque minuti non ci pensi e poi ti ricordi, ti ricordi che non è un film, che ci stai vivendo dentro, che ci state vivendo tutti.
Tra un flash mob e l’altro, la metafora del balcone permea la giornata: sfondare la barriera dell’ego, sciogliere i ghiacci, sbrinare il frigo. Il mio spazio intimo che sfiora quello pubblico, che tocca un altro, aprendosi, come una finestra sul vento che oggi scuote l’aria ferma e silenziosa. Operai con la mascherina, cani che abbaiano. Ho persino letto che esistono progetti sul paesaggio sonoro ai tempi del Coronavirus. Il silenzio è la condizione dominante, e in fin dei conti aiuta la concentrazione, ma solo quando devi lavorare. Per il resto è la fodera della paura inespressa che tutti coviamo dentro.
Lavorare è un concetto che devo ancora rielabolare in relazione a questi tempi, uno scoglio duro da scolpire, un grumo di riflessioni che ancora deve essere esplorato e analizzato. Sento che mi manca qualcosa, che è forse questione di prospettiva. Ho però un format bello e pronto, mi è venuto in mente ieri notte alle due. Mescola i terrazzi agli sguardi sull’alto, la necessità di farsi corpo sociale con le proprie singolarità specifiche e cantare l’inno d’Italia o Rino Gaeatano, e il potenziale offerto dall’affacciarsi su questa situazione comune da un punto di vista alto, leggero, potendo, sulle cose. Calvino: basta una parola.
Dunque alle tre del pomeriggio sfido i refoli di vento freddo – che sia ancora tramontana? – e in cappotto esco in terrazza senza un copione ma con due righe scritte sul quaderno che ho pure lasciato di là. Esattamente come la scaletta della maturità: un foglietto di bloc notes perso chissà dove. Tutto in testa, nodi e maglie che si accorpano cammin facendo.
Un cammino: lo sarà davvero questo percorso? Oggi era lunedì, un nuovo inizio dentro un tempo che sembra essersi fermato. Il tour delle piazze italiane vuote viste dalle webcam trovate online mi commuove in modo struggente, e mentre contemplo la bellezza delle nostre piazze da nord a sud, i colori delle pietre nei centri storici, il mare che se ne frega e continua a essere mare, mi sento fortunata ad averne viste tante, di quelle piazze. Ad averle vissute con tanti affetti e risate. Rompo gli indugi: mando segnali. Non mi aspetto nulla, però è giusto farlo, è giusto farlo adesso forse più che mai. Perché l’Italia è un bel posto e io ci vorrei vivere bene dentro.
Vado in terrazza, accendo la reflex, improvviso come praticamente sempre. Notifiche, anche oggi non mancano, però riesco a incastrare un paio di cose da finire, e va bene così. E poi sta sera c’è Montalbano in tv, e dopo il sabato italiano con la pizza, ciò che ci tiene uniti è il commissario che questa volta gioca insieme al suo puparo Camilleri a fare il cinema, il tiatru, il personaggio. Quanto Pirandello, quante maschere, quante verità nascoste. Ma poi c’è la verandina sul mare di Vigata: un altro terrazzo che si affaccia sulla meraviglia. Lo scroscio delle onde, una tazzina di caffè. Lo spazio-soglia che riempie tutto, luogo degli affetti, unico vero angolo dove ritrovare se stessi.
Afferrata al volo e immediatamente perfetta: Hey Man, Zucchero
Dall’altra parte della strada
Hey man, che sei solo come me
Dall’altra parte della strada