Lo scorso febbraio ho fatto una cosa che, professionalmente parlando, era del tutto nuova. Ho partecipato a una formazione internazionale finanziata dal programma Erasmus + dell’Unione Europea al quale aderisce l’Ordine dei Giornalisti della Liguria, e sono stata cinque giorni a Berlino per seguire un corso dedicato al benessere psicologico nella mia professione.

La formazione si è svolta in collaborazione con il partner di questo importante progetto, che era il Dart Center for Journalism and Trauma Europe, sezione del Dart Center for Journalism and Trauma, organizzazione globale affiliata alla Columbia University di New York. Non è un caso che il nostro gruppo di colleghi sia stato seguito da una psicologa e da una giornalista del Dart Center: il centro è una realtà che da decenni si occupa di offrire ai giornalisti supporto per traumi e situazioni di stress. Quello che abbiamo fatto nei tre giorni di seminario è stato anzitutto analizzare che cosa significa trauma, una condizione che potremmo vivere sulla nostra pelle come giornalisti (se copriamo crisi umanitarie, disastri, crimini…) o con la quale potremmo dover negoziare nel momento in cui intervistiamo o abbiamo a che fare con testimoni e vittime di traumi di vario tipo.

Benessere psicologico e giornalismo: di cosa parliamo?

Se, apparentemente, parlare di trauma sembra distante dalla mia professione nella pratica quotidiana – ufficio stampa di eventi culturali, di progetti di educazione ambientale, o collaboratrice per argomenti sempre piuttosto neutri su un quotidiano locale – il legame del tema con la realtà di tutti i giorni si fa chiaro nel momento in cui evidenziamo l’impatto emotivo del trauma. L’emotività è quella sfera che coinvolge il benessere psicologico e mentale di ciascuno di noi: quando le grava addosso uno stress quotidiano fatto di carichi di lavoro, scadenze, tempesta di notifiche senza tregua, sfruttamento economico (alias: precariato sottopagato), la sensazione di essere trivellati da una sequenza di microtraumi, ciascuno dei quali magari arginabile, ma letali nel complesso, si fa intensa. È una certezza, anzi: lo stress del lavoro giornalistico diventa logorante, un veleno che inficia la nostra stessa salute, e poi la professione che svolgiamo, che ha la peculiarità di farsi alfiere della democrazia.

Nascondere le ferite di questi piccoli microtraumi, seppure a volte esigue in confronto ai traumi impattanti vissuti, per esempio, dai reporter di guerra (per farsi un’idea di cosa stiamo parlando, consiglio sempre il libro capitale del mio professore di linguaggio giornalistico e inviato della Stampa Mimmo Candito, “I reporter di guerra”), riguarda proprio il benessere psicologico di ciascun giornalista. In un mondo mediatico impazzito, carico di competizione, in redazioni dove lo spirito di gruppo va disgregandosi o non è mai esistito, in un ambiente dove si è abituati a stare sulle proprie, guardandosi le spalle, tutto questo è realtà familiarissima per chi la conosce e frequenta.

If you want to be a good journalist, you have to be healthy!

I tre giorni di Berlino ci hanno innanzitutto guidati a capire che questo aspetto logorante del nostro lavoro, cioè lo stress (termine ombrello che qui contiene: precariato, difficoltà con i colleghi, minacce, notizie sensibili, lo sfiancante ritmo della cronaca, e le implicazioni della cronaca nera, per esempio) è vero, vivo, reale, ci riguarda tutti. Parlarne potendo condividere situazioni spesso dolorose, di cui si tende a non dire nulla tra colleghi, per tutti gli annessi e connessi delle gerarchie e delle routine giornalistiche, è stato importante. Come ci hanno fatto notare le formatrici, esplicitarlo, esplorare il tema, capire che ci tocca tutti, significa innanzitutto prenderne coscienza, dargli un nome, staccarlo dalla definizione di noi stessi come bravi o cattivi giornalisti. Si può imparare a gestirlo e, così, si può fare un lavoro migliore, senza che il peso emotivo di un malessere infici sulla definizione della nostra autostima come persone e professionisti.

L’elefante nella stanza

Lo stress esiste, è un grande elefante che si aggira goffo in mezzo alla stanza, sbaragliando le carte. Questa immagine dell’elefante nella stanza è una delle metafore visive su cui le formatrici hanno puntato nella nostra tre giorni, e che hanno avuto molto successo, per lo meno su di me: mi sembra così esplicativa, così clamorosamente chiara. Cosa c’è di più dissonante, alienato e fuori luogo di un elefante nella stanza, di cui non si parla perché si finge di non vederlo? Tiriamolo fuori: parliamone. L’elefante è il nostro malessere. Quella cosa che fa inceppare, arrabbiare, che distrae, butta giù, condisce le giornate di ansia immotivata o eccessiva, genera disagio, fa sentire inutili, sbagliati, sfalsati rispetto al resto del mondo.

Ecco, tra i pregi davvero impagabili dell’esperienza berlinese c’è che questo elefante lo abbiamo visualizzato senza remore, giudizi o paure. Lo abbiamo piazzato proprio al centro, e lo abbiamo osservato, sempre più – meravigliosamente, aggiungo io con stupore italiano – consapevoli che lo stress esiste ed è in mezzo a noi, noi tutti: professionisti, pubblicisti, colleghi di esperienza e altri più giovani, precari o strutturati. Si insinua in varie forme, avvezzo com’è a far parte di una professione che per sua natura non ha orari, vive di emergenze, urgenze, fretta e improvvisazioni. Lo stress è in parte connaturato al lavoro giornalistico, in parte, specie negli ultimi decenni, è l’esisto esponenziale della macro-crisi del settore dell’informazione con le sue becere conseguenze di contratti precari, paghe da fame e terreno instabile sotto i piedi di chi dovrebbe garantire un racconto della realtà basato sulla verità e sul rispetto delle norme deontologiche. La realtà stenterà ahinoi a cambiare, bisogna quindi imparare a farsi carico di questa che è una vera e propria malattia del lavoro, pena il nostro lento affossamento nelle sue sabbie mobili, e di conseguenza un lavoro che non raggiunge il suo massimo potenziale, e persone perse in un disagio sempre più acuto.

Cultural change is a progress

Abbiamo parlato anche tanto di deontologia, norme e ruolo del giornalista, perché ci è sembrato che proprio da qui, dalla nostra definizione di professionisti dell’informazione, dovesse partire una riconsiderazione delle variabili in gioco sotto stress e in situazioni traumatiche. Definire con estrema chiarezza i confini di quel che siamo, di quel che stiamo facendo e del suo perché è paradossalmente non un limite, ma un aiuto a dare informazioni cristalline su di noi, e dunque a ottenere quello che stiamo cercando, siano informazioni o interviste. Una contrainte, in pratica: un vincolo che fornisce potenziale. È che ogni giorno questo vincolo, che qui è un confine, un recinto che, come una giacca, ci definisce professionalmente, viene forzato. Ci provano in tanti a romperlo: la società, noi stessi quando siamo fiaccati dallo stress, chi si prende gioco di noi, chi semplicemente non sa. Ecco perché bisogna sempre essere estremamente consapevoli del proprio ruolo: per difendere quei confini, per proteggerli e così proteggersi, spiegando a che cosa servono, se occorre. È un lavoro? Sì, lo è. Ma essere sicuri del nostro ruolo ci rende meno stressati: è questione di mestiere, appunto, e anche la gestione del benessere psicologico fa parte di questo mestiere. È l’elefante nella stanza: bisogna aprire gli occhi e considerarlo.

Berlino e il benessere psicologico visti da me

Non ero mai stata a Berlino e, seppure in una forma davvero molto particolare, cioè sempre “by night”, con visite dal crepuscolo in avanti, tantissimi passi fatti a piedi grazie a una compagnia amante delle passeggiate e un’aria invernale tala da ghiacciare le pozzanghere a terra, la città mi ha indubbiamente incuriosita. Il suo essere così moderna, di un moderno ed efficiente che convive con pezzi del Muro e la loro storia, non la sottrae alla lettura Novecentesca, ma c’è anche dell’altro. Quest’altro l’ho – l’abbiamo, io credo – captato nell’atmosfera: nordica, chiaramente, presagio di una mentalità molto molto diversa da quella di noi italiani, con la nostra caciara inconfondibile di gruppo schiamazzante su tram ordinati e silenziosissimi.

Credo che uno dei pregi assoluti di questo viaggio formativo sia stato il confronto con una mentalità e una prospettiva molto diversa da quella italiana e prettamente locale che vivo quotidianamente. Ho apprezzato davvero tanto il clima non giudicante formatosi in aula: un unicum, io credo, che forse non capiterà più di sperimentare in Italia, specie in un ambiente di lavoro dove aleggiano sottintesi mai svelati, “caste” segrete quanto esplicitate attraverso i comportamenti, dove si vive col dito puntato contro qualcuno, e quello degli altri, di dito, piantato nella propria schiena.

Sfida notevole è stato infatti l’esperimento pratico di peer support, di supporto tra pari, dentro il quale mio malgrado sono finita, in prima linea tra i selezionati. Che cosa dovremmo fare, infatti, quando un collega in born out decide di lasciare il lavoro? Conscia dello stress, io gli direi: vai, e sii felice. Il cinismo italico, però, non era visto di buon grado a Berlino, dove la materia è trattata molto più seriamente. L’esperimento di peer support infatti ci chiama ad attività che sottovalutiamo o abbiamo dimenticato di fare: ascoltare il collega, dargli la nostra attenzione, e condividere con lui l’ingombro (l’elefante) di un’emozione o di una serie di stati d’animo che gli arrecano malessere. Parliamo di questioni professionali, naturalmente. In cerchio, una di noi ha esposto un grosso problema che l’aveva toccata sul lavoro e in quattro, me inclusa, guidati dalla psicologa abbiamo notato quanto sia difficile rispondere a una situazione del genere senza metterci in mezzo il nostro io, il nostro sguardo soggettivo, il nostro portato esistenziale, anche le nostre frustrazioni.

Il supporto tra pari, tra parole e fatti

Ma si impara, o almeno questa è la speranza: che tra colleghi si riescano ad aprire spazi di supporto reciproco e tra pari. Perché tra pari ci si capisce, perché si parla lo stesso linguaggio professionale, si sa come funziona. Sarebbe fantastico, come abbiamo sperimentato in aula, imparare a non giudicare e soprattutto a non interrompere (da italiani ci siamo distinti negativamente in aula), facendo delle domande che siano innanzitutto tese a chiarire semplicemente i fatti, a circostanziarli meglio, prendendo coscienza, poi, delle emozioni che sono coinvolte nella situazione – i famosi elefanti nella stanza – così ingombranti da fare un macello neanche fossero in cristalleria, ma anche così imbarazzanti, a volte, da essere taciuti parossisticamente. La psicologa ci ha fatto un esempio illuminante: i bambini, quando si fanno male, mica nascondono i loro graffi e il sangue, anzi! Ce li mostrano, come a chiedere aiuto. Cosa che da adulti evitiamo accuratamente di fare, e ci teniamo i nostri mali tutti per noi, fino a esplodere dentro.

È stato sorprendente vivere da vicino l’energia dell’ascolto, la scoperta delle parole altrui e del potere delle proprie. Questa disposizione all’ascolto ha caratterizzato tutti e tre i giorni, una sorta di parentesi magica: impossibile trovare le modalità, lo spirito, il tempo e la cultura per rifarlo nella vita quotidiana, in redazione e in ufficio, in Italia. Le formatrici hanno contribuito a creare un clima sereno e limpido con il loro costante invito al chiarimento, peculiare visto che la lingua che utilizzavamo era l’inglese, e non era la lingua madre di nessuno ma un mezzo per poterci capire e per lavorare.

It’s a matter of language

Ho pensato più volte, mentre ero a Berlino, che al centro di questa formazione ci fosse proprio la parola – del resto era un corso per giornalisti – mezzo per permetterci di esplorare il tema, ma anche mezzo per interagire tra noi esercitando la pratica dell’ascolto, della partecipazione non giudicante, appunto. Stare attenti alle parole altrui, ma stare attenti anche alle proprie, è un esercizio di grande profondità: può sorprendere, insegna ogni volta tantissimo degli interlocutori, soggetto parlante incluso. È un aspetto che ho apprezzato tanto, che ha rinnovato uno stupore sopito da anni, avvelenato anche lui dal cinismo del mestiere e dallo stress. Me lo vorrei portare dietro e conservare rinnovato, vivificato. C’è stata una frase delle formatrici, in particolare, che mi ha colpita: se siete stressati smetterete di lavorare come giornalisti, ma noi, invece, abbiamo bisogno di bravi giornalisti! Mi è sembrato uno sprone bellissimo a prendere tutto il buono di questa esperienza berlinese e portarlo nel mio quotidiano. Con tutti i pregi che un approccio nuovo ha, con tutte le difficoltà che applicare un metodo di supporto tra pari implica in una cultura giornalistica come quella italiana, così ingessata su vecchie regole sociali e prassi.

E tu, come ti senti?

Intanto, un po’ di indicazioni utili per chi capitasse qui e volesse approfondire le attività svolte a Berlino: qui si inizia il racconto dettagliato dei tre giorni, link dopo link si scorrono tutte e tre le giornate grazie al lavoro certosino fatto da un collega che era con noi.

Nel gruppo c’era anche Alice Facchini, giornalista autrice dell’inchiesta “Come ti senti?”, progetto si trova descritto interamente qui ma che si è anche trasformata nel libro “Come ti senti? Indagine sulla salute mentale dei giornalisti”, sempre a cura di Alice Facchini, pubblicato a settembre 2024 da IrpiMedia in collaborazione con l’Ordine dei Giornalisti della Lombardia. È un lavoro per certi versi inedito che esplora il tema della salute mentale nel giornalismo: quando era uscito il form per la raccolta di dati e testimonianze io stessa avevo partecipato.

È un lavoro che racconta del precariato, di quello dei freelance, che magari non sono tali per scelta radicale, ma perché non hanno avuto altre strade per fare giornalismo. È un lavoro che, sorprendentemente e in maniera netta, dice la realtà, la mette su pagina forse per la prima volta, senza fare mistero che il precariato e le difficoltà economiche di un mestiere che chiede tantissimo alla vita personale e familiare di chi lo pratica sono aghi che mordono, e fanno male. Spesso vincono loro, e c’è chi ha sacrificato disposizione d’animo, passione e talento a mestieri diversi per poter avere stipendi dignitosi. Il problema, evidentemente, è che ne va dei buoni giornalisti, ne va dell’informazione. Ecco, in poche parole, perché dovremmo iniziare a parlare assai di più del problema della salute mentale nel giornalismo.

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Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!