Apparentemente infinito, asettico, futuristico forse, con il suono attutito dei tappeti meccanici, la forma di un tunnel che scava dentro la roccia. Procedo verso i binari e mi dico: chissà cosa ne avrebbe pensato Calvino, di questo corridoio che dalla stazione di Sanremo porta ai treni. Oltre la linea gialla è tutto buio, risuona metallica la voce di trenitalia, dietro scorre la radio: c’è un pezzo di Burt Bacharach mentre scrivo questi appunti. Sono appena uscita dal Cinema Centrale dove questa settimana proiettano “Italo Calvino nelle città”, il film-documentario di Marco Belpoliti e Davide Ferrario (ne avevo scritto sul Secolo XIX) dedicato al rapporto tra lo scrittore e le città reali e fantastiche che ha abitato e immaginato.
Il percorso dal cinema a qui, a piedi, le strade gremite di gente, gli abbaglianti neon colorati dell’Ariston, il brusio della città e la sua frenesia automobilistica hanno cullato le bellissime sensazioni raccolte durante il film. Magia dei luoghi: sono convinta che in questo specifico caso sia così. Chi mi conosce potrebbe sbuffare, dire che con Calvino sono fissata. Ma cambiamo la narrazione, facciamoci aiutare dalla lingua e dalla prospettiva a valutare che forse, più che fissazione, è fascinazione. Attrazione, stupore e meraviglia davanti a una vita, una voce e una scrittura che dicono anche di me. E quando tutto questo si fa immagine sul grande schermo, colpisce in modo più immediato della pagina scritta. È incanto puro.

Italo Calvino nelle città
Questo ho sperimentato guardando “Italo Calvino nelle città” al cinema di Sanremo dove Calvino stesso andava a fare scorpacciate di film da adolescente. A un certo punto si è anche manifestata la fantasmagorica quadratura del cerchio, il metaracconto del cinema nel cinema. Perché il giovane Calvino era proprio lì dove ero anche io, gli occhi puntati sullo schermo hanno proseguito senza interruzione dai decori liberty del cinema immaginario a quelli del cinema vero. Ero lì, nella città di Italo. Solo la prima, perché questo documentario si ciba di città vere e immaginarie e procede sul binario cronologico delle uscite editoriali. “Testi di Italo Calvino”, dicono i titoli di testa. Sono tutte parole sue.
C’è Calvino che cammina sul lungofiume nella prima immagine che si vede. «L’unica cosa che vorrei insegnare è un modo di guardare, cioè di essere al mondo» dice una voce fuori campo come incipit di questa narrazione per immagini. Frammenti di archivio, dalle foto alle interviste allo scrittore, passando per documentari d’epoca che ricostruiscono visioni e “modi di guardare”, e poi il filo tenuto insieme dai tre attori che impersonano Calvino nelle diverse età delle vita, Filippo Scotti, Alessio Vassallo, Valerio Mastandrea, e l’apertura verso l’immaginario con la parte più visionaria di questo racconto, quella dedicata alle città invisibili.
Le immagini accompagnano dentro il documentario: il Po di notte, l’opulenza barocca di Palazzo Reale e i marmi della Galleria Sabauda. C’è un sacco di Torino in questo film. Il Campus Einaudi, il lungo Dora, il Polo del 900 con la sala interattiva dedicata alle memorie della Resistenza. Il Parco Dora, la monorotaia di Italia 61, Villa della Regina, via Biancamano con il portone e la targa dell’Einaudi, c’è persino la stanza del tavolo ovale e delle riunioni del mercoledì. Un gioco fantastico indovinarli tutti, perché spesso sono anche luoghi torinesi usati come set delle città invisibili che una meravigliosa Violante Placido interpreta con grande talento e abiti di scena splendidi. Sembra che proprio da lì, da quella superficie di volta in volta elettrica, sontuosa, misteriosa e senza tempo, un po’ stregata, regolare quanto intrigante come una scala a chiocciola, Calvino stesso abbia potuto attingere per le sue città dell’immaginario. C’era forse già tutto a Torino: tutto e il suo contrario, le città possibili e il loro lato opaco. Che magico omaggio alla Torino di carta, come potevo non emozionarmi?
Specchi, rimandi, sguardi, identità
In ogni scena di Violante Placido, in ogni finestra di città invisibile che si spalanca sullo schermo a intervallare le città della vita di Italo, c’è sempre uno specchio. Il gioco dell’identità di Italo è sottile: una questione di sguardi, inquadrature ingannevoli, oblique, proprio come i nascondigli della sua voce tra le righe, flash biografici nascosti in gusci di conchiglie. Dov’è Italo? A Sanremo, nella giungla di palazzi che soffocano Villa Meridiana, nella luce dorata di una spiaggia maremmana o in quella altrettanto dolce degli uffici del Crea, la “seconda” sede della stazione di floricoltura, col suo giardino e le panche di pietra, dove oggi alcuni alberi potrebbero raccontare ancora della cura di Eva Mameli? Si nasconde tra i tetti di Roma, in un negozio di formaggi a Parigi, a Villa Terralba, tra i ricordi di un bambino che fin da piccolo amava giocare con gli spazi?
Se Calvino attraversa le città, le città si moltiplicano all’infinito nello specchio e nei riflessi dei loro orizzonti. Lo scrittore appare e scompare, maestro di quest’arte. È l’intellettuale che cambia come cambia il mondo, restando fedele a sé stesso in una forma mutevole. Qui sta il segreto del suo fascino: osservare, guardare, inventare, sempre cercando risposte al quesito sul modo di guardare – raccontare il mondo. Ci sono schemi fittissimi, pareti di librerie, la macchina da scrivere della sua casa romana, oggi trasferita nella ricostruzione dello studio ospitata alla Biblioteca Nazionale Centrale.
Una mappa di Italo. Italo che è tanto di Sanremo quanto del mondo. Mantiene il suo accento ponentino, l’imprinting che ben sottolineava Gianmarco Parodi, ma è ovunque: affascinato dai grattacieli di New York, chiuso nella sua “casa di campagna” nella zona sud di Parigi, intento a battere sui tasti della Olivetti nella casa torinese del lungo Po. L’intellettuale cresciuto bambino tra verdi visioni di Riviera e la botanica che sussurrava legami tutt’intorno, il ragazzo che partecipa alla Resistenza e ne fa il suo primo capolavoro letterario. Allievo di Pavese, “gemello” di Primo Levi (ci sono anche loro nel documentario: che bellezza), torinese di adozione per l’operosità, la serietà, e anche per gli squarci creativi, aggiungo io. Lo spirito di ogni città si trasforma in un’idea che in qualche pagina ritroveremo: tetti, pagine, strade, tram, tutto si mescola e diventa materiale visionario nelle parallele città che impersona Violante Placido. Il loro potere visivo è straordinario: in questo il documentario ha davvero una forza in più.
Ancora un po’ di Liguria
Che dire della canzone del duo Luciano Berio – Italo Calvino? “Ora mi alzo” è interpretata nel documentario da Raphael Gualazzi. La cantava Cathy Berberian, era parte dell’opera “Allez-hop” di Berio, con libretto di Calvino (siamo alla fine degli anni ’50). Ne ho scoperto l’esistenza alla mostra Calvino Cantafavole dove erano esposti dei bozzetti di scena. Ne è poi stata fatta una versione graficata in forma di video in occasione del centenario, e da lì ho scoperto la storia modernissima di quest’opera che racconta di un disagio tutto (ancora) nostro. Il testo della canzone, a farci attenzione, oltre che bellissimo (la parola “frigidaire” è già tutto un mondo) racconta una noia illanguidita che potremmo benissimo riadattare ai nostri giorni.
La cosa che mi ha nuovamente emozionata, ad ascoltare la nuova interpretazione della canzone, è accorgermi di nuovo, come fosse il millesimo segnale esplicito, della reale e concreta vicinanza di due nomi capitali del Novecento culturale a me, al mio mondo. Due vicini di casa: Imperia Berio (era nato lì nel 1925), Sanremo Calvino. Quando si incontravano ricordavano le comuni origini ponentine, da qualche parte ho letto che abbozzavano parole in dialetto (la mente corre alla lettera di Calvino a Biamonti contenuta dentro “I libri degli altri”). Chissà cosa tiravano fuori, ormai cittadini del mondo, rispetto alle loro radici.
È proprio questa vicinanza che continua a sorprendermi e colpirmi: lo stesso cinema di Calvino, la stessa panca di pietra, la forma della città, le vie, i portoni, le scrivanie, gli sguardi panoramici, dall’alto. Li ho ripercorsi quasi tutti in pellegrinaggi di turismo letterario che avevano la scopo di spiegarmi quel sentimento di appartenenza condiviso, quell’origine comune dello guardo. Ogni casa, oggetto, riga, analisi di Calvino al contempo mi spinge fuori e mi riavvicina qui. Anche lui “era di qui”. Aveva l’accento come il mio, ha visto un mondo più o meno simile a quello che ha formato me e che, molto probabilmente, ha formato anche il suo sguardo. Non è un caso che il mio rimando universale a questo tema sia Dall’opaco: uno sguardo non diretto che, per capirsi e capire, ha bisogno di un filtro a volte obliquo. Esattamente quello che la regia di “Italo Calvino nelle città” ha colto con l’occhio della telecamera. Ecco perché ho amato questo documentario, perché mi sono commossa in sala, perché è stato un privilegio poterlo guardare seduta sulle poltrone del cinema Centrale. Perché ci ho ritrovato tutto quello che ho studiato di Italo, e tutto quello che ho rincorso cercandolo e cercandomi, fino a qui.