A gennaio 2025 ha inaugurato a Torino una bellissima mostra che resterà visitabile fino al 6 maggio. Giro di posta. Primo Levi, le Germanie, l’Europa è allestita alla corte medievale di Palazzo Madama, la organizza il Centro Internazionale di Studi Primo Levi e la curatela è di Domenico Scarpa, che tanta parte del suo lavoro ha dedicato a Primo Levi (e non solo: tra gli autori più studiati da Scarpa c’è Calvino, e su Italo Scarpa ha scritto un testo io credo fondamentale su cui lo intervistavo qui).

Ma che cos’è Giro di posta, e perché merita una visita? La mostra è un percorso attraverso una parte molto peculiare del lavoro di Primo Levi come scrittore, ma ancora prima come uomo, uomo curioso. Il percorso si snoda dal Lager agli anni di I sommersi e i salvati attraverso una serie di carteggi privati. È una corrispondenza europea, ed è sorprendente scoprirla attraverso i caratteri battuti a macchina e i personaggi che coinvolgono, una rete internazionale multilingue e multi-prospettica. La parte più consistente sono gli interlocutori tedeschi di Levi. Il che già potrebbe sorprendere. Levi, però, voleva conoscere, capire, sapere. Ed è per questo che non si sottrae al vero e proprio giro di posta che coinvolge in fogli e fogli un sacco di personaggi a volte legati alla sua storia di deportato, a volte semplici cittadini che, colpiti da Se questo è un uomo desideravano riscattarsi come tedeschi, o condividere interrogativi.

“Il signor Heinz Riedt, di Berlino”

C’è un mossa che potreste fare prima di visitare la mostra, e che secondo me potrebbe essere molto utile. È quel che ho fatto io, più o meno casualmente, più o meno volutamente, subodorando una storia che non conoscevo e volevo approfondire. Pochi mesi fa, in corrispondenza del progetto di mostra, è uscito in libreria Il carteggio con Heinz Riedt (Einaudi, 2024), che raccoglie gran parte della corrispondenza che Primo Levi portò avanti per vent’anni con il suo traduttore tedesco di Se questo è un uomo. Da un lavoro peculiare come il delicato passaggio linguistico e culturale di un’opera fondamentale sulla testimonianza della Shoa, il carteggio si fa via via una vera relazione scritta, asse portante di un’amicizia.

Si tratta di un libro meraviglioso, gonfio di umanità, di bellezza, e anche di Storia, quella maiuscola, perché scavalca, letteralmente, il 1961 della costruzione del Muro (Heinz Riedt viveva nella Berlino est prima di allora) e racconta un periodo terribile del Novecento dal punto di vista anche culturale. Al di là dello splendido personaggio che Riedt rappresenta, della sua biografia e della sua lingua, questo carteggio è lo sbocciare di un’amicizia in forma di lettera, ed è – lo ripeto – meraviglioso. La curatela di Martina Mengoni permette, con tutti gli accuratissimi apparati, di ricostruire la storia editoriale e orientarsi perfettamente tra le lettere e i riferimenti.

Ed è per questo che consiglio caldamente di leggere il carteggio accompagnandolo alla mostra. Non solo perché, arrivati alla sezione di Heinz Riedt, sembrerà di conoscerlo, ma perché la vicenda attraversa un periodo che è bene aver chiaro prima di inseguire i fili del giro di posta, e dà anche utili indicazioni sul punto di vista tedesco rispetto alla Shoa, sugli interrogativi delle persone. Soprattutto, fa comprendere che è la traduzione tedesca di Se questo è un uomo che dà il via al giro di posta: il libro esce tardissimo in Germania, proprio in quel 1961 del Muro, ed è solo grazie a questa traduzione (letteralmente un ponte) che la voce di Levi e la sua esperienza arrivano in Germania. Un paese che per questa forma di testimonianza è molto, molto peculiare.

Da una macchina da scrivere alla Storia

Ma torniamo alla mostra, che molto poeticamente inizia con un omaggio alla macchina da scrivere, ricordata attraverso qualche modello, ma anche con il sonoro, attraverso il celebre brano The Typewriter di Leroy Anderson. Ho trovato molto affascinante questo focus iniziale sulla macchina da scrivere: primo, perché riporta a una prassi che abbiamo perso, la àncora a un oggetto specifico che risuona nella memoria di tutti noi da una certa generazione indietro (o avanti, che dir si voglia!), secondo perché si approfondisce la tecnica di questo strumento e si arriva a parlare di macchina da scrivere come oggetto che ricorda che la scrittura è teatro. Che frase bellissima. Riporto dal testo in mostra: «È teatro per i modi infiniti con cui si può presentare sotto l’aspetto grafico, ed è teatro perché riguarda sempre una qualche forma di realtà e riguarda quasi sempre dei rapporto umani. Le lettere, in particolare, sono dei dialoghi. Sono opere destinate a una sola persona o a poche persone e sono – anche in questa mostra – testi tutti da interpretare». Tra le altre cose, ci viene ricordato che Primo Levi fu tra i primi a passare al computer, nel 1984, con un Macintosh.

[Foto Studio Gonella].

Era invece una cartolina scritta in fretta e furia, nella disperazione, il biglietto che Levi riuscì a mandare quando fu catturato con la banda di partigiani di cui faceva parte per poi prendere la strada, per alcuni senza ritorno, della deportazione nel Lager. La mostra espone un documento struggente ed emozionante, cioè la lettera che Levi, una volta arrivati i sovietici e liberato il campo di Auschwitz, riuscì a inviare alla sua amica a Torino, Bianca Guidetti Serra. È una storia, questa, che meriterebbe un articolo intero e più: rimando a questo mio scritto per inquadrare la figura di Bianca Guidetti Serra, e a questo libro meraviglioso dove Bianca compare, tra le figure memorabili della storia di Primo Levi insieme a Lorenzo.

Se queste prime lettere sono messaggi di importanza vitale, testimonianza della sopravvivenza, e voci familiari, quando Levi ritorna e nel 1947 dà alle stampe la prime edizione di Se questo è un uomo, il libro non suscita interesse vivo. Bisogna aspettare, appunto, l’edizione tedesca affinché il racconto della testimonianza superi i confini italiani e inneschi, letteralmente, una serie di scambi epistolari da tanti interlocutori: lettrici e lettori comuni, lettori che erano anche scrittori, ex compagni di Lager, e persino qualcuno che ad Auschwitz stava «dall’altra parte». Il centro di questi scambi resta l’interrogativo che parte dalle pagine di quel libro e che riguarda, certo più degli altri, i lettori tedeschi. Lettori che rispondono, cogliendo il messaggio di Levi.

Da “Se questo è un uomo” a “I sommersi e i salvati”

I carteggi e le lettere accompagnano non solo la vita di Levi, le sue domande, ma naturalmente anche la sua scrittura. Nel momento in cui Se questo è un uomo non è ancora tradotto in Germania, c’è infatti un intellettuale che si accorge della voce di Levi. È Hermann Langbein, austriaco, che contatta Levi perché vuole un suo capitolo nel libro di testimonianze sul Lager che sta costruendo. È forse la prima volta in cui la testimonianza di Levi riverbera in tutta Europa, e capitoli di Se questo è un uomo finiscono in antologie fuori dall’Italia.

Il giro di posta che dà il titolo alla mostra si sviluppa invece dal 1966 ed è innescato da Hety Schmitt Maass giornalista, politica, bibliotecaria tedesca di Wiesbaden che resta colpita dal libro di Levi e avvierà letteralmente in giro di posta. È lei a far avere a Levi una copia di Intellettuale ad Auschwitz di Jean Améry, autore con cui Levi riesce a mettersi in contatto. Così come accade con una figura peculiare degli anni di Lager, Ferdinand Meyer, uno degli ingegneri tedeschi che Levi aveva conosciuto nella fabbrica di Buna-Monowitz. Grazie al giro di posta, i rovelli di Levi non si spengono, anzi. Sono proprio questi spunti e riflessioni a costituire parte di I sommersi e i salvati, che conterrà riferimenti alla stessa Schmitt Maass, ma non solo.

Le tante lettere che Levi iniziò a ricevere dai lettori tedeschi dopo la traduzione di Se questo è un uomo lo avevano colpito: spesso erano di ragazzi, troppo giovani per aver vissuto il nazismo, e imbarazzati come lui davanti all’interrogativo schiacciante della Storia. Queste lettere sono così importanti, e suscitano così tante riflessioni decisive, che Levi aveva pensato di racchiuderle in un “progetto tedesco” che poi non ha visto la luce, ma è in parte inserito dentro “I sommersi”. Tutto, tra le carte e i giri di posta, si tiene in una storia decisamente europea, portata in mostra proprio a ottant’anni dalla liberazione di Auschwitz (27 gennaio 1945 – 27 gennaio 2025). Il giro di posta è infatti la base viva, umana, della discussione sulla Shoah e sul suo posto in un’Europa da ricostruire dopo la guerra che inseguì Levi per tutta la vita. E, con i suoi fili, tiene insieme la Germania spaccata in due di quegli anni, e ben quattro lingue: italiano, francese, inglese e tedesco. Sembra impossibile, osservando il mondo di oggi, che senza web e senza computer, solo con una macchina da scrivere, cinquant’anni fa bastarono le parole di Levi ad attivare una rete internazionale tutta tesa a parlare e condividere riflessioni sui gradi di orrore raggiunti dal nazismo.

Consiglio dunque di approfittare di questa mostra per scoprire una storia straordinaria. La mostra, tra l’altro, fa parte di un più ampio progetto che si chiama LeviNeT, ed è coordinato presso l’Università di Ferrara da Martina Mengoni. Il progetto, finanziato dallo European Research Council, prevede di qui al 2027 la pubblicazione progressiva in open access (www.levinet.eu) delle corrispondenze “tedesche” di Levi. Attenzione alla brochure della mostra: ci sono preziosi Qr code con lettura di brani dalle lettere di Levi!

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Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!