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Questo articolo è stato scritto tra il 7 e l’8 marzo 2020, prima dunque del lockdown totale dovuto all’emergenza Coronavirus, prima delle cifre stravolgenti e allucinanti di morti e contagi: se vi stupirete di alcuni riferimenti ancora “leggeri”, per quanto il clima fosse ormai quello che viviamo oggi, 25 marzo, il motivo è questo. Come tante altre cose che penso e scrivo, questo articolo ha provato a farsi trovare da interlocutori più nobili e noti di questa pagina, senza successo. Ve lo presento dunque qui con un po’ di ritardo sull’ideazione, sicura che le riflessioni e i riferimenti che contiene siano ancora attuali e apprezzabili. «Mi hanno chiamato amici dall’Australia, mi hanno chiesto cosa succedeva in Italia, mi hanno offerto rifugio sicuro da loro: sono un’isola!». Questo ascoltavo una settimana fa nello spogliatoio della palestra, prima che tutto accadesse, prima di adesso. Un’isola: una porzione di terra separata dal resto…

Nel 2015 lessi un romanzo Bompiani che mi piacque tantissimo, Parole in disordine, di Alena Graedon, un testo che mi è prepotentemente tornato in mente oggi, 24 febbraio 2020, uno dei giorni caldi in cui l’ecosistema mediatico è concentrato sull’epidemia di Coronavirus in Italia. Ecco, questo romanzo parla di un virus, della sua diffusione, e dei media. Direi che è perfetto per il periodo.

Dove è finita la felicità che la vita aveva promesso a una generazione di trentenni super competente e giramondo? Il pieno di felicità è un romanzo di autofiction attraverso il quale l’autrice cerca di ripercorrere i passi che l’hanno portata alle sue scelte, e di darsi una spiegazione, prefigurarsi un futuro.