Sul frontespizio della mia copia di “Quante cose ci ha rubato la guerra” c’è scritto, in azzurro, “Per Alessandra, raccogli tutte le memorie che puoi, serviranno!”. È la dedica che mi ha regalato l’autrice, la mia prima, e per ora unica, intervistata sulle pagine nazionali di un quotidiano. Perché Manuela Barban l’ho portata sul Secolo XIX all’ultimo Salone del libro, e quando abbiamo chiacchierato, sedute nell’oasi di tranquillità dello stand del suo editore, Las Vegas, il suo romanzo ancora non era uscito nelle librerie, circolava in anteprima, e non potevo materialmente averlo letto: non avrei avuto il tempo.

È dura parlare di una cosa che non sai, e dunque cui avevo scelto la forma dell’intervista, per dare spazio alle parole dell’autrice che questa storia la conosce benissimo. Non tanto perché l’ha scritta, ma perché è una storia vera e riguarda i suoi nonni.  Insomma che, sentendone parlare, avevo capito che in “Quante cose ci ha rubato la guerra” c’era della Liguria, ed ero in caccia, come giornalista, proprio di storie liguri. Storie magari poco note, da raccontare per farle conoscere. È così che abbiamo “battezzato” questo romanzo dove Albisola, cittadina in provincia di Savona, ha un ruolo considerevole, quando ancora il libro non esisteva nelle librerie e senza che io l’avessi letto. Rassicuro tutti: ho rimediato. Ne valeva ampiamente la pena!

Una storia di guerra

Come accennavo, questa è una storia nella storia. È la storia di un ritrovamento, come tanti ne capitano nelle famiglie, specie se si tratta dei nonni di una certa generazione di noi: nonni che hanno vissuto la guerra sulla propria pelle. A Manuela è capitata una scatola di lettere originali dei suoi nonni (a proposito di nonni, scatole e memorie, per me ha fatto scuola Lungomare Nostalgia di Andrea Malabaila) e lei ha dovuto decidere cosa farne: se recuperare una memoria, tessendone il filo, o lasciare che andasse persa. Ha scelto la prima strada, e ci ha messo un bel po’ di tempo sia perché ricostruire la storia dietro dei lacerti di parole non è facile, sia perché si parlava di guerra, e la precisione, in questo senso, necessita di studi e ricerche, sia perché questo romanzo non nasce con la pretesa di diventare un romanzo, ma una storia stampata per essere tramandata in famiglia.

Invece è capitata nelle mani di Las Vegas che, da editore con occhi e cuore, ha capito che questa creatura di carta aveva un destino da romanzo. E così è stato, ne danno conferma le vendite notevoli. Un po’ di genesi di come è nato il romanzo è contenuta nei capitoli che lo aprono e chiudono: siamo nel 2013, la famosa consegna della scatola di ricordi da parte di zia Egizia, figlia dei nonni di Manuela, è il gancio narrativo da cui si dipana tutta la trama.

Che è una trama di guerra, parte con l’8 settembre e si concluderà a conflitto finito. Come tale, è scandita dalle annate: sono tante, pesanti, e il titolo non è casuale: la guerra ha rubato molto a tutti. All’inizio di ciascuna annata l’autrice ci fornisce una sorta di vademecum storico dei fatti che riguardano l’Italia, l’Europa, ma soprattutto le città coinvolte nella storia, cioè Albisola, Trieste, Savona. Vediamo situazioni molto diverse, tra bombe che cadono, Resistenza che va organizzandosi, quadri di vite familiari accomunate da uno sfondo molto interessante che è lo stabilimento siderurgico Ilva.

Una Resistenza alternativa

Tutto nasce dalla fabbrica: Goffredo, detto Fred (il nonno) viene infatti trasferito dall’Ilva di Savona a Trieste, e con lui va la moglie Silvana. I due sono a Trieste allo scattare dell’8 settembre, con la piccola Egizia, Egi. La situazione si gonfia di tensione e Fred decide che Trieste non è un posto sicuro per la moglie, meglio quindi accompagnarla ad Albisola a casa dei suoi, dove sarà al sicuro mentre lui tornerà nel nord est. Da questa decisione passeranno diversi anni di paura, di crisi e di coraggio. Le vite dei due si separano, tenute insieme dalle lettere autentiche che Manuela riporta nel romanzo, parte integrante della trama che costruisce. Come mi ha spiegato, è tutta vera, salvo per il cattivo, elemento narrativo di cui aveva bisogno per dare nerbo alla storia.

Albisola da un lato, Trieste dall’altro. Accadono cose diverse in questi due luoghi: da un parte c’è la cittadina ligure di mare dove la famiglia di Fred accoglie il caratterino tutto pepe di Silvana con la piccola. Non passerà molto che la situazione circoscritta, una serie di piccoli dissidi domestici e la tensione causata dalla distanza con Fred e dalla guerra lacererà la promessa dei due sposi: Silvana non starà al sicuro deciderà di non stare con la famiglia del marito, preferirà trasferirsi dai genitori della sua migliore amica, a Savona. Un carattere molto molto deciso, quello di Silvana, lei e il suo rossetto color geranio che davanti alla suocera non mette, lei e i lavori che si inventa per avere i soldi per il vizio delle sigarette. Una donna volitiva, fortissima: le lettere sono documenti straordinari, nelle parole di Silvana c’è tutta la grandezza della donna che è stata e del personaggio che sua nipote ne ha ricavato.

All’Ilva di Trieste, intanto, lo scenario è altrettanto teso. Il discreto Fred entra infatti a far parte della Resistenza in fabbrica. È un tema del quale ero ignorantissima, e sul quale ho potuto ragionare proprio grazie a questa storia vera – lo ricordo: i fatti narrati che riguardano Fred e Silvana sono la vera storia dei nonni dell’autrice. Mentre la situazione internazionale degenera verso il 1945, si organizzano azioni partigiane nella grande acciaieria, in particolare si lavora per il salvataggio della fabbrica delle mine tedesche che vorrebbero devastarla in vista della ritirata nazista.  Fred gioca la sua parte, senza mai svelare il pericolo a casa, in Liguria, e diventando una sorta di spia. Incontra il personaggio inventato, un nazista che ha qualche segreto, si confronta con fatti terribili che intanto avvengono a Trieste, come lo sterminio degli ebrei che proprio lì ha una delle sue pagine italiane più deplorevoli, tocca con mano la paura, nel rischio dell’Ovra, e capisce che la città di confine è un ambiente complesso, dove si vanno agitando altre tensioni.

Quante cose ci ha rubato la guerra, e quante ne ha lasciate

C’è tanto di personale in questo libro, e altrettanto se ne trova nella mia lettura, partita grazie a un’intervista e approdata a uno scorcio di Liguria che mi è risuonato dentro. Non solo per l’eco della parlata che conosco bene – la figetta per dire la bambina a me suona nella testa come credo a ogni ligure – ma per dettagli, come il passaggio per arrivare alla casa di Albisola, tanto proteso sul mare che, quando ci batte l’onda, bisogna aspettare che si ritiri l’acqua per avere spazio e passare. Un’altra pagina ligure è quella che riguarda i bombardamenti su Savona, e sono felice che, per quei casi che solo i libri sanno e segretamente pilotano, io questo romanzo lo abbia letto a giugno e non al Salone del libro.

Perché nel tempo che c’è stato in mezzo mi sono trovata, per altri motivi, a studiare qualcosa della storia di Savona e a fare un giro in città, scoprendo quindi del quartiere medievale distrutto dai bombardamenti – cosa che ho ritrovato nel romanzo – e imparando a conoscere meglio una topografia che poi mi ha aiutata a vedere le scene. La scena ambientata nel rifugio sotterraneo a Savona è davvero una bella pagina di narrativa: comunica tutta la tensione di un periodo che l’autrice non ha vissuto, e quasi certamente nemmeno noi lettori. Questa storia in effetti ha dell’incredibile perché è vera, ma è insieme anche un’invenzione narrativa che ha messo insieme le tessere di una storia familiare facendo ricerche al contrario, guardando tra le lettere, parlando coi familiari. È la storia vera di una coppia di genitori che sta separata quasi due anni: nel mezzo c’è una guerra, un tempo disastrato in cui però la bambina cresce. Eccolo, il tempo che ha rubato la guerra, le pagine di una vita familiare che non torneranno, la paura, la frustrazione, ma anche la forza d’animo, la tempra.

Nelle lettere – sono vere! – si legge chiaramente la complessità di una storia d’amore che si interroga, messa alle strette, che si costruisce mentre tra Silvana e Fred c’è distanza, sì, c’è silenzio, incomprensione, ma c’è anche un progetto, la volontà di costruire insieme qualcosa. A me, oggi, questa storia sembra straordinaria. Perché è una storia vera, pulsante: nessuno è mai tutto intero tra le pagine di Manuela Barban, che riesce, al contrario, a restituire le sfaccettature di ogni personaggio in una profonda e commuovente umanità. Sono i suoi nonni, sono diventati personaggi, e sono integri, a tutto tondo, tra dubbi, rischi, pericoli, in mezzo alla guerra. E durante la guerra una coppia può anche litigare, facendosi domande e lottando per resistere, perché entrambi gli sposi ce la vogliono fare: anche questa è storia con la s minuscola, ma storia vera.

La storia in scatola, che è stata strutturata ed è diventata libro come se, soffiando su lettere e documenti, le voci che li popolavano avessero preso vita e fossero tornate a quegli anni pieni di tensione e paura, ma in fondo anni vivissimi, anni di definizione dei nonni futuri che Silvana e Fred sarebbero stati. E dei quali oggi possiamo leggere, grazie alle voci vere e all’invenzione creativa dell’autrice, la meravigliosa storia.  

Author

Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!