Questa storia inizia a Milano una mattina di febbraio. Università, aula studio, silenzio. No, non mi trovo lì per ragioni mie: accompagno un amico a fare un esame, mentre aspetto sono al pc, recupero stralci di lavoro e cerco di vincere il sonno prepotente che mi accompagna dopo la sveglia alle 5 del mattino. Come è ormai prassi – giusta o meno, non è questa la sede per discuterne – mentre sistemo le mail di lavoro e scrivo cose, allineo eventi, prendo appunti, do un’occhiata a Facebook. Un’occhiata che è sia una ricerca di lavoro, come ormai abitudine, sia una pura scivolata vanesia nel mondo dell’ego: che notifiche ci sono, cosa ho scritto, cosa potrei scrivere o postare.

Eccolo, il secondo inizio di questa storia: inizia sui social, una mattina di febbraio, in un’aula silenziosa di Milano. Giorni prima ho letto di sfuggita che nella mia città si è aperto un dibattito in Consiglio comunale sull’installazione di vasche per l’itticoltura a largo di una zona di mare preziosa per la sua biodiversità e molto amata dai cittadini. Ho solo letto velocemente, ho scorso i titoli, non ho approfondito nulla per mancanza di tempo, occasioni, e persino voglia: alle volte le baruffe della mia cittadina non mi coinvolgono da vicino, anche perché la mia città non la vivo, abito altrove.

Ebbene, mentre sono in aula studio si aggancia al mio occhio, nello scroll della pagina, un post di una persona che conosco e con cui collaboro, una persona di stima e fiducia della quale mi fido, con cui solitamente mi trovo d’accordo per valori, visioni del mondo. Si tratta di qualche riga di commento sui fatti delle vasche di itticoltura, condita con un parere del tutto personale su un assessore e che si chiude con l’invito a scrivere, se interessati, per aderire alla creazione di un gruppo di persone che si opponga all’installazione delle vasche.

Si tratta di un tratto di mare particolarmente caro, a me e a tanti, si tratta di difendere casa mia, la casa del cuore. Distrattamente, con un lento ribollire di passione e identità nella pancia, clicco “conta su di me”. Continuo lo scroll, il lavoro, le letture, il tempo trascorre, me ne dimentico.

Ma passa davvero poco, che la conseguenza del mio gesto torna a galla, e mi stordisce con un cazzotto. Ancora università, il mio amico è uscito dal test, ci stiamo preparando per uscire, lui racconta come è andata. Suona il telefono. Una persona delle istituzioni. Rispondo. In breve: l’accusa è di aver aderito non tanto a un’iniziativa, quanto a un commento che, oltre ad andare contro la parte politica che mi sta telefonando, ha la caratteristica di basarsi su presupposti falsi. Mi viene ricordato che sono giornalista. Mi viene chiesto se ho letto, se so. E la mia risposta, colpevole, è no, non ci ho pensato, non me ne stavo curando, è passata così, ma tanto è solo un post su facebook. Appunto: un post su facebook. Il mio interlocutore telefonico si preoccupa: poi le informazioni false rimbalzano, poi si amplifica.

Quando usciamo dall’università ho addosso l’appiccicosa ombra della vergogna per un passo falso, di quelli che li fai per leggerezza e a cervello spento, ma la cui conseguenza è assai più grande di ogni tua aspettativa, e si sente in pancia. Ho fatto un errore, è così. Brucia un po’ ammetterlo, ma ho sbagliato. L’ho fatto per superficialità, perché condizionata da una spinta emotiva, perché disattenta, perché pigra. Ma non avrei dovuto farlo, invece, proprio perché questi fenomeni li ho in parte studiati, perché per mestiere mi occupo di informazione e ho anche a che fare con le istituzioni, perché rispondo a una deontologia e a un rigore professionali. Invece ho sbagliato, e sulle ceneri del mio errore ho deciso di provare a capire cosa stava accadendo, dove mi ero fatta fregare dalle circostanze mandando in ferie il buon senso. Il caso ha voluto che questa mia riflessione diventasse una cosa gigante.

Vittime della viralità: una storia di tutti

Questa storia, iniziata a Milano e sui social, è infatti una storia che nel giro di dieci giorni è diventata di tutti. È la storia locale legata alle proteste per l’installazione di un impianto di itticoltura, ma è anche una storia che, per pura casualità, si è intrecciata con l’aumento dei contagi da Coronavirus in Italia, e con la conseguente esplosione del fragore mediatico intorno. Ecco perché la mia storia personale è diventata un po’ la storia di tutti: vittime della viralità, tutti quanti, vittime della comunicazione.

Cosa c’entrano, i due fenomeni? Lecita domanda. Per spiegarvi il legame, però, dobbiamo tornare a quel post sull’impianto di itticoltura, e a quello che è successo dopo. Cercherò, come mi ha argutamente suggerito in metafora una collega di “indossare un impermeabile e fare solo la cronaca dei fatti”. Esce il post, oltre alla mia, riceve decine e decine di adesioni. Si concretizza un sommovimento di protesta, diventa voce, si allarga, chi di dovere se ne prende la responsabilità e ci mette la faccia, con tanto di lettere aperte ai media locali. Questa “esplosione” di protesta sfocia in un gruppo facebook orientato alla causa, ovvero salviamo il nostro scoglio.

Nel frattempo io ho letto, mi sono informata, ho trovato un contraddittorio, ho cercato di capire una situazione assai poco lineare ma realmente complessa, nella quale gli attori in gioco sono diversi e così la scansione temporale dei provvedimenti. Entro a far parte del gruppo perché, tuttavia, l’emozione identitaria della prima ora era sincera e dunque la causa mi appassiona. Partecipo anche pubblicando una piccola provocazione che vorrebbe richiamare l’attenzione su qualche atteggiamento ipocrita di chi grida di amare un luogo ma, da che quel luogo patisce, non se ne è mai preso cura finora, momento in cui grida di voler agire.

Non lo percepisco ancora, ma sono dentro l’innesco. Cresce, gonfia come un impasto che lievita. Dopo qualche ora eccolo, è già gigante, vivace, ribolle. È il chiacchiericcio dentro il gruppo, dove tutti dicono tutto e il contrario di tutto, dove si grida – lo testimoniano diversi maiuscoli -, dove la forma dell’italiano vacilla in modi spaventosi, dove viene percepito come fuori tema un intervento di argomentazione, a testimonianza di un’incapacità di leggere e gestire fenomeni complessi. Dove, infine, dopo qualche giorno di fermentazione, viene presa una posizione sorda, che nella mia testa assume le forme di un bambino che fa capricci  e pesta i piedi. Posizione in virtù della quale sono persino rifiutati dati oggettivi proposti da fonti autorevoli.

Mi arrendo. Non si può argomentare nulla così, non si può informare, lavorare per il bene. La sensazione è quella di voler fuggire, vedo intorno a me le grandi pareti del mio mondo giornalistico crollare polverizzate dai colpi di cannone della cosiddetta cultura orizzontale. Non c’è più credibilità nei giornali, per contro sono gli stessi media a non agire in senso propriamente corretto, limitandosi a riportare la cronaca di quel che accade sui social. Non c’è ricerca, non c’è inchiesta, non c’è scavo, non c’è quasi mai un contraddittorio, una ricostruzione dei fatti, un tentativo. (Quasi mai, non si offendano i colleghi capaci!)

Dubbi, dubbi, e ancora dubbi amari

Sono molto amareggiata dalla situazione, i miei dubbi si sovrappongono, formano lunghi nastri intrecciati di domande e amarezze, di risposte che a volte hanno il volto di marketing, investimenti, economia, e che non hanno strettamente a che fare con l’informazione, eppure la sostentano, ci sostentano. L’eterno quid dell’editoria impura, il nuovo tarlo dell’informazione digitale, degli algoritmi, del seo che vince 10 a zero contro tutto il resto. E i lettori ad abboccare, i lettori a metterci del proprio, a gridare con le mani sugli occhi, sulle orecchie, mentre le pareti di cui sopra crollano, mentre i baluardi delle cose che ho studiato all’università e sui gli studenti oggi fanno esami si polverizzano. Pulitzer e l’opinione pubblica, il ruolo del giornalismo nella democrazia.

In questo scenario già compromesso per i miei dubbi e le mie domande, per i miei pensieri, ecco, arriva in Italia il Coronavirus. Siamo sul pezzo, mi verrebbe da pensare. Io che mi interrogo sui degeneri dell’informazione e sulle reazioni acefale dei lettori – della gente -, io che arrivo da un seminario svolto nel 2016 al Circe di Torino (ne trovate l’esito nell’elenco delle mie pubblicazioni scientifiche) a tema viralità, io stessa che rido delle vignette di Morgan e Bugo, di una scena televisiva scritta e riscritta con i suoi mille pattern e risemantizzazioni.

Estremamente sul pezzo. Sì, perché nel giro di 24 ore il virus si prende la scena, tutti i media pompano, Mentana allunga il tg, la mia bacheca di facebook e quella di tanti altri – di tutti? – impazzisce e si riempie di commentatori dell’ultima ora sul virus. Chi grida al complotto, chi intima la calma, chi condivide cose anche giuste da fonti casuali, chi invece va alle fonti dirette. E ancora, chi si sente in dovere di dire la propria, chi specula sulla meta-viralità, e dunque come me durante il dottorato fa discorsi sulla comunicazione del rischio, dell’emergenza, sulla psicosi collettiva.

Colpa dei giornali, dei titoli roboanti, dell’uso improprio del linguaggio. Anche, sì, certo. Ma i lettori? I lettori che alimentano la vorace macchina dei contenuti e delle condivisioni via via con informazioni presunte, con meme, che sono già contenuti al secondo grado, rielaborati e che attestano la competenza di ciascuno sul tema con quel tanto di ironia che basta ad autorizzare.

Cerco di fare la mia parte, con rigore: seguo le fonti, informo i lettori. Neutrale, rigorosa, in costante aggiornamento. Me ne infischio abbastanza del seo, questa volta non si può, questa volta il grillo parlante che è in me indica chiara la strada: bisogna informare correttamente, e basta, solo quello. Intanto fioccano gli immancabili miopi leoni da tastiera: chi commenta sotto al post dell’articolo chiedendo informazioni che sono contenute proprio nell’articolo, ed è evidente che non sia stato aperto, tanto meno letto; chi commenta dicendo la sua su informazioni che, lui l’ha letto su qualche giornale, lui lo sa, sono diverse.

Un senso di amarezza profondo, che si alimenta del chiacchiericcio non più digitale ma vero che trovo in palestra all’indomani del crescere dei contagi. Colpa dei cinesi, colpa degli arabi, saremo sicuri al paesello tal dei tali, chissà adesso i centri per i migranti, io ci sto attento, mia figlia ha preso l’aereo e via dicendo.

Sì, ci sono proprio dentro, in mezzo, al centro. Vedo, sento, registro, collego e non trovo risposte alla psicosi di massa che si scatena, non so più se dai media all’opinione pubblica, oppure anche in senso inverso, come io sospetto, dall’opinione pubblica – anzi, dai social, diciamola per come sta – ai media. Il post è il fenomeno digitale che diventa virale e dunque rientra nell’agenda dei media. Perché si sa che al giornale interessano i fatti nuovi, insoliti, e un supermercato che si svuota è insolito, è una notizia, non si può negare, e se inonda le bacheche digitali di tutta Italia è dichiaratamente agenda, via, gli articoli sono pronti. Sono notizia allo stesso modo i treni bloccati alla frontiera, i decessi e contagi, e lo diventano opinioni di virologi che servono per capire. Signori, eccola pronta: la ricetta per l’emergenza raccontata sui media. Un’emergenza che ha a che fare con un virus, e che per contro si alimenta di dinamiche che del contagio virale riprendono metaforicamente alcune caratteristiche.

Viralità, fastidi e comunicazione ammalata

Sì, lo so, è più complesso di così, ma non posso riassumervi qui – ho già scritto tre pagine senza usare seo e paragrafi, il che è un gesto assai ribelle – una bibliografia immensa sul tema. Ho però ripreso in mano il volume dedicato alla viralità che uscì da quel famoso seminario del Circe, e ho riletto cosa ci aveva spinto, in anni non sospetti (2016-2017) a studiare le dinamiche culturali della comunicazione online insistendo sulla forma di viralità che alcune di queste, per esempio i meme, sembravano intraprendere.

«È stato durante la conferenza stampa tenutasi al termine della cerimonia per il conferimento della laurea honoris causa in Comunicazione conferitagli dall’Università di Torino—evento che a sua volta chiudeva il convegno “The Meaning of Conspiracy: Plot and Mystery in Communication” (Torino, 8–10 giugno 2015), dopo una lectio magistralis a tema — che Umberto Eco ha rilasciato le sue famose dichiarazioni su “social e imbecilli”; prova provata, viste le vicissitudini ipertestuali e le disletture che hanno attraversato, che quello che il Professore aveva detto era vero» trovo scritto nella prefazione. E mi sento un po’ meno a disagio, un po’ più a casa.

In quell’occasione – il convegno sul complottismo – era emerso come i meccanismi del contagio discorsivo (basti pensare a quello che accade sui social) fossero un campo perfetto per far attecchire complotti e complottismi. È vero, anche oggi se accendete la tv su uno dei tanti talk giornalistici dedicati al tema del coronavirus, o se cliccate in rete su siti e riviste che hanno a cuore la comunicazione (vedi Il post, Internazionale ecc) troverete discorsi al secondo grado, che raccontano della viralità delle fake news e di come la comunicazione stessa, in situazioni di emergenza come questa, tenda a debordare, a fare passi falsi, a gridare al clamore al mero scopo di attirare lettori.

Nel 2016 mi ero occupata dei prodromi del fenomeno xylella in Salento e avevo enucleato una serie di osservazioni che avevano a che fare con la costruzione dell’effetto veridittivo del testo giornalistico, con la credibilità, con la viralità come campo di contaminazione di testi differenti, tale da contagiare, appunto, il lettore, farlo ammalare di disinformazione.

Ecco quanto riassumevano i colleghi Gabriele Marino e Mattia Thibault presentando il mio lavoro: «Se da un lato, infatti, credibilità e reputazione sono effetti testuali costruiti dal discorso giornalistico all’interno dei singoli testi, indipendentemente dalla veridicità dell’informazione in sé, dall’altro, si attiva un circuito all’interno del quale non si distinguono più le fonti, i media e il pubblico, soggetti che si confondono in un circolo fatto non tanto di infezioni unidirezionali (come suggerisce la metafora virale), quanto di contaminazioni reciproche. Su questo sostrato vanno a innestarsi strutture narrative efficaci (come quella del complotto), voci forti della propria notorietà (celebrità che intervengono, a titolo personale, nel discorso) e strategie che alimentano coscientemente la diffusione della disinformazione (nel tentativo di attrarre click e consensi), fenomeni che acuiscono lo scollamento tra veridicità del racconto giornalistico e aderenza ai dati fattuali. La veridicità dell’informazione passa così in secondo piano, mentre i soggetti coinvolti sono sempre più mossi da adesioni passionali, da omologazioni identitarie o da patemizzazioni e paure».

Troppo complesso sarebbe descrivere qui, tentare di farlo almeno, le cause di questo fenomeno, che ha anche a che fare con dinamiche testuali – quelle che so leggere io -, ma non solo. È un ecosistema complesso, me ne rendo conto: ci siamo tutti strozzati dentro, chi per lavoro, chi perché lettore-utente-spettatore. Ma c’è un’altra cosa che ci accomuna: la pigrizia. Clicchiamo e condividiamo, scriviamo e postiamo senza pensare. Ricordate? L’ho fatto anche io, anche io che dovrei sapere, dovrei agire con rigore, sempre. Ero mossa da un’emozione, ho perso l’orientamento tra dati fattuali e opinioni mescolate dentro la veridicità di un discoro privo di reale credibilità.

Ecco, da dove si origina la presunta viralità mediatica: dal nostro habitat quotidiano, dallo schermo di questo pc dove scrivo, o dello smartphone che tengo a fianco sulla scrivania. È un habitat a complessità molto densa, che dobbiamo tuttavia fronteggiare senza sviste, senza scivoloni, senza ingenuità. La complessità va cavalcata. Lo so, richiede tanto tempo, quasi come la lettura di questo mio scritto, richiede sforzo, competenze, umiltà, quella per fermarsi un attimo prima di cliccare, di postare, di gridare dall’alto di un vuoto che fa spavento, che è il vuoto della pochezza, dell’ignoranza dei fenomeni, dell’analfabetismo digitale, con-causa di quello funzionale.

Leggere senza capire. Vi pare possibile? Eppure succede, succede ogni giorno, palleggiando di post in post, tra testualità e costruzioni di senso che maneggiamo come fossero caramelle e sono invece pillole velenose. Fateci caso, tenete quel dito sollevato un attimo, e domandatevi: ma è proprio il caso che dia spazio al mio ego producendo anche questo post sul coronavirus, anche questo meme che ironizza sui supermercati svuotati, anche questa battuta, questo racconto, questa foto con i numeri di emergenza? È proprio necessario che io gonfi ulteriormente una nuvola mediatica già satura, dando di fatto ulteriore sostanza a un’agenda mediatica massiva, quasi impazzita?

Domande: me ne pongo molte, da quella telefonata in università a Milano. Non sempre trovo risposte, perché risposte secche non ne esistono. Esistono discorsi articolari, argomentazioni che per stare in piedi hanno bisogno di leggere, di documentarsi, di confrontarsi. Insomma, di tornare a ragionare analiticamente come si faceva una volta, fuori dai social.

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Sono una giornalista, mi occupo di uffici stampa per la cultura e l'ambiente, di comunicazione e social media. Ho un dottorato in semiotica: va da sé che ho una spiccata curiosità per tutto ciò che ha a che fare con i testi e i loro meccanismi. Amo il mare, leggo tantissimo e adoro scrivere: A contrainte è il mio sito, ci trovate recensioni di libri e racconti di quel che mi circonda!