È il giorno 23 di un periodo che doveva essere lungo, ma sarà ancora più lungo. Scrivo, senza sosta, non come vorrei, ma posso arrivare al punto esatto, so che è possibile. Intanto i 25 giorni a casa si allungheranno, ma il titolo resta quello, ormai mi sono affezionata.
Lunedì, si riparte. Si perde il conto dei giorni di questo disastro, è quasi la normalità. Quasi, appunto. Tra navi, grecale, pedalate verso un muro e chiavi rotte, ma pur sempre chiavi
Terza domenica di quarantena: oggi è il giorno 21, poco sole, molta rilassatezza. Sistemo cose, e leggo. Leggo tutto il giorno perché ho tra le mani Rocco Schiavone, e sparisce tutto, solo silenzio.
Al ventesimo giorno di quarantena percepisco un bisogno grande di calma. Sarà il sabato, sarà il sole che è tornato, gli affanni passati, il bisogno di guardarsi dentro. Tutto questo insieme, mentre leggo, cerco equilibri, smaltisco arretrati
Quindi è venerdì. Una settimana che è volata, non so bene come, il tempo ha perso consistenza, frena frena frena. Eccoci: è venerdì. Fa un freddo invernale, piove, tutto è grigio, statico, un po’ vuoto. Oggi mi sento così: le ore si accavallano e concludo poco. Ho freddo, i pensieri tornano sui guai che sento e vedo intorno. Dovrei finire cose, anzi vorrei, perché questa tensione del “to do” mi disarma e mi stacca dall’ambizione vastissima che sto coltivando e che scalpita oggi più che mai: studiare. Studiare come soluzione lenta, come desiderio che finalmente, dopo anni, si ritrova. Studiare come voracità di saggistica che scalza il passo alla narrativa già da un pezzo. Forse ce n’era bisogno, forse era quello che volevo da tanto. Meno computer, più pagine. E magari tornare a imparare cose, ci provo già da oggi, in modo fallimentare con Indesign e le sue versioni non…
Diciotto giorni a casa, tanto ci voleva per sistemare la sintonia, allentare la morsa, almeno provarci: oggi rifletto sull’ascolto, tanta radio, tanti libri, tanto freddo, quasi innaturale.
Giorno 17, la quarantena sblocca la lettura, attività rimasta sospesa. Decisioni, coltelli piantati sul tavolo, libertà ritrovate. Ragiono di questo, nell’ennesimo mercoledì di quarantena, e intanto scrivo, e leggo.
Questo articolo è stato scritto tra il 7 e l’8 marzo 2020, prima dunque del lockdown totale dovuto all’emergenza Coronavirus, prima delle cifre stravolgenti e allucinanti di morti e contagi: se vi stupirete di alcuni riferimenti ancora “leggeri”, per quanto il clima fosse ormai quello che viviamo oggi, 25 marzo, il motivo è questo. Come tante altre cose che penso e scrivo, questo articolo ha provato a farsi trovare da interlocutori più nobili e noti di questa pagina, senza successo. Ve lo presento dunque qui con un po’ di ritardo sull’ideazione, sicura che le riflessioni e i riferimenti che contiene siano ancora attuali e apprezzabili. «Mi hanno chiamato amici dall’Australia, mi hanno chiesto cosa succedeva in Italia, mi hanno offerto rifugio sicuro da loro: sono un’isola!». Questo ascoltavo una settimana fa nello spogliatoio della palestra, prima che tutto accadesse, prima di adesso. Un’isola: una porzione di terra separata dal resto…
Martedì, giorno 16 di quarantena e una calma diffusa che soffoca l’ansia e precede una risalita solo immaginata. Si pedala da fermi, si aspetta che il lievito salga, si sbotta, si legge di malavoglia, si ripensa agli anni Novanta.
Giorno numero 15: è lunedì, e sono all’improvviso senza lavoro. Non c’è molto altro a cui pensare, se non cercare di districare una matassa di 200 metri di lenza. Una metafora offerta su un piatto d’argento, anche se qualcosa, tra lo stomaco e la gola, fa un sacco di paura.